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Didattica > Fonti > La società urbana nell’Italia comunale > I, Introduzione

Fonti

La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV)

a cura di Renato Bordone

© 1984-2005 – Renato Bordone


Sezione I – La popolazione

0. Introduzione

1. La popolazione rappresenta senz'altro la più immediata manifestazione del fenomeno urbano, l'«indice più semplice – afferma Roncayolo – dell'importanza e dello sviluppo delle città».

Abbiamo in precedenza accennato come ogni studioso della città medievale si sia sentito in dovere di partire dalla definizione isidoriana, secondo la quale non le pietre ma gli homines formano la civitas e spesso, per corroborarla, qualcuno è ricorso alla citazione di Brunetto Latini che considerava la città «un raunamento di gente fatto per vivere a ragione». Così dunque gli uomini del Medioevo sentivano prevalente l'aspetto di agglomerazione demica, senza bisogno di porsi, come oggi fa la ricerca urbana, il problema della «soglia minima» necessaria e sufficiente per distinguere l'insediamento cittadino dagli altri insediamenti umani. Ma questo avveniva perché, seppure l'agglomerazione della popolazione appariva come l'elemento sostanziale, esistevano di fatto delle caratteristiche funzionali che già individuavano per loro conto la città fino a diventare nella cultura dell'epoca quasi elementi formali della sua definizione (le mura, la sede vescovile, ecc.). In questa prospettiva il numero degli abitanti della città e il maggior grado di agglomerazione in relazione a quelli del contado – cioè quello che oggi si definisce il «livello di urbanizzazione» – non rivestivano un'importanza determinante nell'individuazione della città ma diventavano piuttosto una conseguenza del processo di crescita urbana, le cui oscillazioni non avrebbero in ogni caso intaccato il concetto di città: le città di origine romana che in età longobarda sussistono come entità fisiche e demiche ridotte a proporzioni minime – come dimostra la presenza cospicua di coltivi all'interno delle mura – continuano nondimeno a essere indicate come civitates senza perdere i caratteri distintivi che hanno nei confronti dei castra o delle ville del territorio e proprio in quanto civitates manifestano nei secoli successivi, tutte indistintamente, un netto incremento demografico.

Stabilito il significato che occorre assegnare alla popolazione cittadina, tale non per la quantità ma per le sue caratteristiche, si possono ora considerare gli aspetti più propriamente demografici: il numero degli abitanti e il processo di crescita urbana.

Sulla consistenza demografica delle città medievali e in particolare delle città medievali italiane le informazioni sono poche e sfuggenti per la mancanza, specie per il periodo più antico, di fonti esplicite del genere dei censimenti: soltanto con il diffondersi, con l'età comunale, dei registri di estimo, dei catasti, delle matricole militari e successivamente degli elenchi dei «fuochi», cioè delle famiglie, compilati a fini fiscali, è possibile ricavare serie utilizzabili di dati quantitativi, il cui limite, tuttavia, sta molto spesso nel non essere comprensivo di tutti gli strati sociali che abitano la città, lasciando fuori, di conseguenza, un numero imprecisabile di marginali, privi di possesso fondiario, o residenti temporanei.

Ciò nonostante non sono mancati tentativi di indicare un numero approssimativo di abitanti per i centri maggiori e minori meglio documentati: secondo Waley, che sintetizza e divulga dati di ricerche specifiche, Padova, ad esempio, a tre quarti del XII secolo doveva raggiungere i 15.000 abitanti e i 35.000 nel 1320, Firenze, come vedremo meglio più avanti, raddoppiò dall'inizio alla fine del Duecento presumibilmente da 50.000 abitanti a 100.000, ma si tratta, in ogni caso, di esempi eccezionali, poiché, sempre secondo lo stesso autore, solo 23 città in Italia alla fine del XIII secolo raggiungevano i 20.000 abitanti, mentre la media delle altre doveva aggirarsi fra i 5.000 e i 10.000 abitanti, valori sui quali concorda il demografo Mols, applicandoli in generale alle città dell'intera Europa medievale.

Molto più difficile appare determinare i rapporti quantitativi esistenti fra la popolazione urbana e la popolazione complessiva sparsa nel territorio: fino a età relativamente più vicina a noi (fine Settecento) il tasso di urbanizzazione in genere si aggira attorno al 10%, sebbene per la pianura padana e per l'Italia centrale il tasso pare arrivare forse al 30-40%; ma in certi casi la cifra va ridotta a meno del 5%, poiché per Sjoberg il genere di tecnologia preindustriale non può assolutamente mettere a disposizione un surplus di dimensioni così ampie da sostentare una percentuale urbana più elevata.

Il rapporto fra popolazione urbana e popolazione rurale nelle città italiane del Medioevo di fatto è strettamente legato al problema della crescita urbana; più volte è stato infatti affermato che la crescita urbana nelle città preindustriali non viene, se non in maniera irrilevante, alimentata dalla città, perché il tasso di mortalità appare più alto nei centri urbani, in quanto risente maggiormente di epidemie e carestie, che non in quelli rurali, e la sterilità delle popolazioni cittadine è maggiore: in tale congiuntura la città necessita di riserve a cui attingere per compensare il deficit di crescita con il reclutamento di gente nuova dalla campagna. Herlihy a questo proposito ha fornito un modello di interpretazione, applicato alle città toscane, che tiene conto della teoria dei sistemi di cui abbiamo parlato e prevede una serie di conseguenze per la città nel caso di incremento o decremento della popolazione totale: se le nascite superano le morti le città crescono più rapidamente della popolazione totale a causa dell'aumento di immigrazione dalle campagne prima da parte dei proprietari poi delle masse, il cui afflusso in città favorirà l'imposizione di istituzioni e valori «rurali» nel centro cittadino; se, al contrario, le morti eccedono le nascite, le città diminuiscono più rapidamente del totale, incominciando dalle classi urbane medie o povere, e la conseguente disurbanizzazione favorirà lo sviluppo di forme sociali e culturali propriamente «urbane». Si individuerebbero così tre fasi nella vita cittadina della Toscana: la fase della «città patrizia», determinata dall'afflusso in città dell'aristocrazia rurale, la fase della «città plebea», caratterizzata dall'attrazione dei ceti inferiori della campagna che mantengono rapporti con i villaggi d'origine, e infine la fase della «città signorile», a carattere autocratico, in seguito alla precedente disurbanizzazione prevalentemente da parte dei ceti popolari. Connesso con l'andamento demografico e con la particolare composizione sociale della città in ciascuna delle tre fasi appare l'uso dello spazio cittadino, caratterizzato infatti, secondo Herlihy, nella prima fase dalle torri delle consorterie patrizie, nella seconda dagli ampi spazi aperti, nella terza dal palazzo signorile.

Il modello di Herlihy ha il vantaggio di offrire un concetto dinamico della città non limitato al semplice dato demografico, ma in grado di spiegare anche gli aspetti sociali e urbanistici, risente tuttavia del limite di ogni generalizzazione e soprattutto pare non tenere conto delle costanti della vita urbana che l'attraversano verticalmente, proponendo delle successioni forse un po' troppo rigide. Se è opportuno sottolineare la dipendenza della città dal sistema territoriale nella quale è inserita e di cui concentra il flusso di energie, non bisogna però dimenticare che la città non nasce con l'immigrazione dei ceti dirigenti dalle campagne ma ospita fin dalle origini una popolazione cittadina dotata di caratteristiche particolari delle quali i nuovi arrivati, pur con il contributo dei loro condizionamenti, cercano di appropriarsi.

Il problema della popolazione della città, prima ancora che di composizione sociale, che vedremo più avanti, è un problema di individuazione complessiva, sociale e giuridica, nei confronti del resto del sistema, e di come la sua crescita, che avviene prevalentemente con il reclutamento delle riserve, riesca a integrarle pur mantenendo le caratteristiche di uno status distinto e omogeneo in un processo che conosce innumerevoli varianti a seconda della particolare fisionomia di ciascuna città.


2. Che nel trapasso fra il mondo antico e quello medievale sopravviva, per quanto ridotta di numero, una popolazione cittadina è un dato incontrovertibile, dal momento che sopravvive il nome stesso di civitas alle città di origine romana. Sulle condizioni giuridiche in cui si trovano i suoi abitanti nel periodo più antico molto è stato scritto in passato e valga per tutti il nome di Guido Mengozzi che nel 1914 dedicò un volume, oggi in parte superato, alla città italiana nell'alto Medioevo, sostenendo la tesi della continuità del «diritto italiano classico» nella costituzione delle città italiane. Se pure elementi «classici», quali il suburbium e il territorium che con il centro urbano formavano il municipium, sembrano aver conservato qualche significato e, benché in altre forme, ritorneranno più tardi a caratterizzare la città italiana, di fatto l'invasione longobarda segnò una drammatica rottura anche nella storia cittadina. Nello stanziamento dei nuclei parentali (fare) sul territorio italiano, spesso – ma non sempre – i duchi e il loro seguito si stabilirono nelle città in quanto si presentavano come centri fortificati e certo dovette avvenire un avvicinamento fra l'esigua popolazione superstite e gli invasori, rafforzato dopo la conversione di questi al cattolicesimo dalla presenza in città del vescovo; con l'avvento dei Franchi, l'accresciuto numero delle fonti a nostra disposizione ci consente di individuare gli abitanti della città come un'entità demica caratterizzata dalla stabile e consueta residenza urbana; fra di loro non paiono più sussistere barriere etniche, anche se probabilmente non si è ancora sviluppata una coscienza comunitaria, e l'immediata articolazione che ci è dato di cogliere sembra essere quella fra il gruppo dei laici e il gruppo degli ecclesiastici, presenti con diversa consistenza numerica.

Informazioni indirette ci provengono da una interessante notitia relativa alla riparazione delle mura di Verona, avvenuta nei primi anni della dominazione carolingia in Italia (doc. 1): in occasione dei restauri fatti da Carlomagno in seguito alla distruzione degli Avari, sorge una controversia fra i «cives et urbis iudices» da una parte e la sede vescovile dall'altra sulle quote di partecipazione alla spesa; i giudici, che rappresentano l'elemento laico della popolazione, volevano infatti che la chiesa contribuisse per un terzo, ma il vescovo e gli ecclesiastici della città ritenevano di dover contribuire solo per un quarto. È chiaro che le quote indicano l'importanza e le possibilità economiche delle parti in causa e non le proporzioni demografiche, ma è interessante osservare la considerazione che la «pars ecclesie […] a comparatione tanti populi exigua esset»: a Verona c'è dunque una nettissima minoranza ecclesiastica rispetto alla popolazione laica, il che non sembri apparire troppo ovvio, dal momento che sono presenti, oltre alla corte del vescovo, altri sei enti ecclesiastici cittadini. Laici ed ecclesiastici rappresentano dunque la più semplice distinzione dei gruppi residenti in città, che fanno capo rispettivamente ai giudici e al vescovo: la parte della chiesa non è poi estranea ai problemi della città, anche se la sua partecipazione economica alle spese pubbliche è limitata a un 25-30%.

Ben diversa si direbbe invece la posizione assunta dal vescovo di Bergamo poco, più di un secolo dopo, nel 904 (doc. 2): se a Verona appariva ben distinto dal resto dei cives, qui, in un diploma di Berengario, in occasione di analoghe esigenze di restauro delle mura, il vescovo definisce gli abitanti suoi concives, assumendone quasi la rappresentanza in prima persona e superando in tal modo la divisione interna fra laici ed ecclesiastici. È mutata la situazione politica generale e, come vedremo, ha inizio una fase di potenziamento dell'autorità vescovile sulla città che culminerà in età ottomana: rinsaldamento dell'autorità cittadina e incombenza di pericoli esterni provocano un flusso migratorio dalle campagne, individuabile nel riferimento ai «confugientes sub potestate et defensione prenominati episcopi». Quanti di quei rifugiati ancora distinti dai concives – rifugiati ai quali spetta la manutenzione ma non la decisione sugli interventi di restauro – non tornarono ai loro villaggi d'origine per stabilirsi definitivamente in città?

Per Milano, Violante ha riscontrato proprio dalla prima metà del X secolo un incremento della popolazione cittadina provocato dalla migrazione dal contado di famiglie di giudici, di preti e di negoziatori, contemporaneo a un aumento di popolazione rurale che non subì grande influsso dalle scorrerie ungare che in quel tempo si verificavano. Se l'incremento urbano determinato dai confugientes poteva sembrare dalle espressioni dei diplomi imperiali l'effetto immediato di un pericolo esterno – o poteva tornare utile ai richiedenti che così sembrasse –, nella realtà doveva rispondere piuttosto a un flusso di crescita demografica della popolazione rurale in fase di ridistribuzione, come dice Herlihy, sui centri di densità inferiore.

Strettamente legata con l'incremento demografico della città è l'area di proiezione extramurale degli interessi urbani, la base dell'approvvigionamento cittadino che consente ai residenti non contadini la sopravvivenza. Non è infatti difficile immaginare che, in un'epoca dalla tecnologia limitata e con una rete di trasporti insufficiente, le riserve quotidiane alimentari debbano provenire dagli immediati dintorni. Di conseguenza, a una crescita urbana corrisponderà la necessità di accrescere le aree di diretto sfruttamento. Per l'età più antica non abbiamo informazioni dirette a questo riguardo e dobbiamo ricorrere a indizi ricavabili dai diplomi imperiali che ci fanno menzione dei beni privati dei cittadini all'esterno della città, e dei beni comuni, collettivi per tutti gli abitanti.

Che la città italiana del X secolo sia in prevalenza una città di consumatori-proprietari fondiari può essere suggerito da un diploma dei re Berengario e Adalberto del 958 con il quale si conferma a tutti gli abitanti di Genova tutto ciò che posseggono a qualunque titolo e secondo le consuetudini «infra et extra civitatem», cioè, come viene elencato dalle formule consuete, terre, vigne, prati, pascoli, ecc. dislocati in prevalenza nell'area circostante di dipendenza urbana, caratterizzata dal possesso dei cittadini e intesa dall'autorità pubblica come tendenzialmente immunitaria, anche se non ancora in senso territoriale, ma come somma delle porzioni patrimoniali dei cittadini, esentate dall'intervento fiscale (doc. 3). Pochissimi anni più tardi Ottone I, sollecitato dai vescovi interessati, riconoscerà il valore di circoscrizione urbana all'area di fruizione, affidando proprio ai vescovi i poteri fiscali e giurisdizionali su di essa, considerata quasi come appendice naturale della città, se non proprio del tutto equiparata a essa. Valga per tutti l'esempio del vescovo di Parma al quale viene concesso dall'imperatore potere giudiziario, diritto di mercato ed esazione fiscale «tam infra civitatem quam extra ex omni parte civitatis infra tria miliaria» e, si badi bene, nel raggio delle 3 miglia appaiono compresi una dozzina di luoghi con le loro adiacenze: non si tratta cioè di un'area suburbana in senso stretto, ma di un vero e proprio sistema insediativo tributario della città, i cui abitanti saranno soggetti a una particolare disciplina giuridica (doc. 4).

La situazione di Parma è abbastanza generalizzabile per le città dell'Italia settentrionale soggette a un vescovo; solo l'ampiezza del distretto sembra mutare a seconda dei singoli beneficiari, probabilmente in relazione con la dislocazione geografica e con l'entità demografica del centro cittadino: la concessione imperiale di un'area giuridicamente individuata e distinta dal resto del territorio non farebbe, in definitiva, che fornire un riconoscimento ufficiale all'area «naturale» di proiezione urbana. Tant'è che l'importanza di tale area e lo stretto collegamento con la città emerge anche là dove non c'è stato riconoscimento ufficiale di distretto perché il vescovo non ha ottenuto poteri giurisdizionali, rimasti invece, più o meno saldamente, in mano dell'autorità pubblica, come nel caso di Mantova, che era sotto il controllo della potente dinastia dei Canossa. Nel 1055 infatti Enrico III, prendendo sotto la sua diretta protezione i Mantovani, fa divieto ai suoi funzionari di molestare «predictos vel ermannos in Mantua civitate habitantes de suis personis […] vel de eremannie et communibus rebus ad predictam civitatem pertinentibus ex utraque parte fluminis Mincii sitis» (doc. 5). Ci troviamo in un caso analogo a quello genovese, ma ancor più illuminante: oltre alla più precisa distribuzione geografica, viene fatto chiaro riferimento ai beni di uso comune della cittadinanza – già documentati nel 977 – che dovevano presentarsi frammisti a quelli dei privati cittadini. Beni privati dei cives, beni comuni della collettività (spesso anche estesi e definiti «campanea civitatis»), beni dei rustici insediati nelle ville sottoposte al districtus cittadino rappresentano dunque l'indispensabile fonte di approvvigionamento urbano, produttrice di quel surplus che consente in questo periodo di alimentare i cives; parallelamente gli uomini insediati su quei beni come coltivatori, livellari, enfiteuti o come abitanti delle ville tributarie formano la riserva demografica alla quale la città attinge per sviluppare la sua crescita.

Non mancano esempi di questo periodo che illustrano il vitale legame fra la città e il territorio suburbano e quali gravi conseguenze provocasse l'allentamento o l'interruzione di quel flusso durante le guerre: nell'assedio di Milano della prima metà dell'XI secolo, per mancanza o insufficienza di scorte alimentari, i cittadini, isolati dal territorio suburbano, sono costretti a sopravvivere con il poco grano prodotto all'interno della città, del tutto insufficiente a sfamare la popolazione (doc. 6/a). Non per niente un secolo più tardi, secondo il cronista Raevino, il Barbarossa prima di assediare una città pone la massima cura nel fare attorno a essa «terra bruciata», distruggendo campi e vigne e facendo tagliare gli alberi da frutta, preoccupato di eliminare ogni possibilità di vettovagliamento agli assediati al punto di stabilire una pena per gli eventuali mercanti sorpresi a importare frumento in città e un premio per quelli che avessero invece consegnato le vettovaglie all'esercito imperiale (doc. 6/b).

Lo spettro della fame, e con la fame la minore resistenza alle malattie con conseguente alto tasso di mortalità, doveva essere una costante abbastanza periodica nella realtà della città medievale italiana, specie nel periodo di quasi totale dipendenza dall'area suburbana, e sarà preoccupazione particolare del governo comunale stabilire precise norme annonarie nei confronti dei territori che venivano progressivamente sottoposti al controllo politico della città. Ancora nel Trecento, quando un comune come Firenze poteva contare ormai su un vasto e ricco contado, in grado di sostenere la sua numerosa popolazione cittadina, un fatto come il «tradimento» di colle Val d'Elsa – i cui abitanti si erano rifiutati di vendere il grano ai Fiorentini per darlo nascostamente ai Pisani – poteva suscitare la veemente deprecazione dei Fiorentini al punto di far dipingere l'episodio sul muro della sede dei Sei della Biada con intento infamante.


3. L'afflusso di popolazione dalle immediate vicinanze della città e, in alcuni casi, dai centri più lontani del contado, che già abbiamo rilevato esser in atto a Milano nella prima metà del X secolo, nel corso dell'XI comincia ad assumere un'intensità regolare, riscontrabile sulla base di dati tangibili, nonostante la povertà dei documenti. C'erano alla base un'espansione demografica generale, connessa con il miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne, ora sfruttate da una tecnologia più evoluta rispetto al periodo precedente, e uno sviluppo economico di cui la città, come punto centrale del sistema, godeva maggiormente i frutti grazie al potenziamento delle funzioni commerciali che esercitava. In questa congiuntura favorevole, le vecchie mura diventano insufficienti a contenere i nuovi venuti che tendono a stanziarsi attorno a esse dando vita a nuovi insediamenti suburbani. Significativo, a questo proposito, il semplice confronto fra i passi di due documenti simili relativi a Mantova: nel diploma di Enrico III, che abbiamo considerato in precedenza, si faceva riferimento ai «cives […] in Mantua civitate habitantes»; in un diploma di Matilde di Canossa che nel 1090 conferma il precedente nei medesimi termini, compare la variante: «cives in Mantuana civitate vel in suburbio habitantes vel deinceps habitaturos» (doc. 7). Appare da ciò evidente che nell'arco di quarant'anni la città è mutata e si presenta in fase di crescita demografica e di espansione urbanistica. Che ciò sia dovuto prevalentemente all'immigrazione è attestato un po' ovunque: ad Asti nel 1094, ad esempio, un proprietario franco, appartenente al ceto eminente delle campagne, permuta con il vescovo alcuni appezzamenti che possiede in un villaggio a pochi chilometri dalla città in cambio di un'area edificabile posta «foris Aste civitate in burgo ipsius civitatis» (doc. 8). Burgum e suburbium stanno inequivocabilmente a indicare l'area insediativa strettamente contigua alla città, da essa distinta dal punto di vista fisico ma spesso non da quello giuridico: i borghi, in altre parole, e con essi i loro nuovi abitanti, tendono a «farsi città», a essere incorporati come parte integrante dell'insediamento originario. A Mantova, come abbiamo visto, non sembrano infatti esserci differenze fra coloro che abitano «in civitate» e coloro che abitano «in suburbio»; diverso sembra essere invece il caso di Bergamo, dove nel 1177 gli abitanti di una località del contado che si sottomette al comune sono accolti come «liberi ut unus ex burgis civitatis Bergami» e verso di loro i consoli si impegnano a prestare aiuto e consiglio «sicut facerent hominibus suburbiorum suorum», espressione dalla quale si può arguire una distinzione giuridica fra gli abitanti della civitas e quelli dei suburbia (doc. 9).

A questo punto il problema demografico dell'incremento della popolazione urbana appare in stretta connessione con il problema della condizione giuridica degli abitanti della città, ormai formanti una collettività in grado di autodeterminarsi: ciò che si suole definire il «diritto di cittadinanza» infatti si determina e si chiarisce soltanto con l'affermazione politica del comune che fissa con precisione i requisiti necessari per essere partecipi dell'organizzazione comunitaria. È ormai convinzione comune (Violante, Dilcher) che in età precomunale non si possa parlare correttamente di uno status di cittadino che consenta la partecipazione alla vita pubblica, ma solo di doveri connessi con la residenza, riguardanti prestazioni di carattere pubblico; la partecipazione diretta degli abitanti alla gestione politica che si realizza soltanto con l'instaurazione del regime comunale impone una tutela delle prerogative dei cittadini che costituiscono l'ente, tutela garantita dalla fissazione di condizioni rigide e precise per acquistare il diritto di cittadinanza. Da una sentenza dei consoli di Milano del 1184 risulta infatti essere condizione indispensabile per diventare cittadino milanese aver posseduto «ex longis retro temporibus» una casa in città e aver fatto «hostes et guardas tamquam civis» (doc. 10). Possesso urbano e partecipazione agli oneri collettivi di difesa indicano al tempo stesso il carattere selettivo che assume la concessione di cittadinanza e può in qualche modo confermare lo stesso carattere selettivo che – come è stato sostenuto – ha assunto nel primo periodo l'immigrazione dalla campagna alla città: solo chi è in grado di acquistare casa e di usare le armi, in altre parole, si sposta dal contado per entrare a far parte della cittadinanza. Il che non significa, ovviamente, che non ci possano essere stati apporti di carattere demografico da parte di categorie anche economicamente più umili, ma che soltanto i residenti possessori possono essere considerati cives di pieno diritto, mentre gli altri – districtuales, cioè abitanti dell'antico distretto vescovile, sottoposti in alcune città a particolari oneri fiscali, rustici del contado inurbati, forestieri temporaneamente residenti in città – vengono distinti dai cittadini di pieno diritto con il termine di habitatores, in condizioni giuridicamente inferiori ai cives.

Questo aspetto ha portato a valutare la prima fase di immigrazione in città come una fase prevalentemente signorile: sarebbero stati cioè i signori del contado a trasferirsi in città e, con i loro gruppi familiari, ad accrescerne le dimensioni demografiche. Occorre in realtà fare una distinzione, poiché un conto è la residenza stabile e definitiva, un conto è la residenza temporanea in caso di guerra che può gravare come obbligo del nuovo civis: il cittadinatico, cioè l'assunzione fra la cittadinanza, dei domini rurali appartiene infatti, nella maggioranza delle città, a questo secondo tipo, non implica l'abbandono delle sedi rurali, dove essi, anzi, continuano a esercitare poteri sugli uomini e, almeno in una prima fase, tale movimento non può essere considerato un fattore di crescita stabile della città. Un documento senese del 1157 – ma se ne potrebbero citare molti altri – prevede infatti che un rappresentante per ciascuna delle due famiglie signorili che giurano alleanza con il comune abitino a Siena due mesi all'anno in tempo di pace con le mogli e sei mesi in tempo di guerra senza le mogli (doc. 11), e precisa «secondo le disposizioni dei consoli», subordinando il periodo di residenza alle esigenze politiche riconosciute da una precisa richiesta dell'autorità comunale. Spesso poi in questa prospettiva, più che di migrazione volontaria si può parlare di vera e propria imposizione politica, seguita ad azioni militari o diplomatiche, che i consoli stabiliscono nei confronti dell'aristocrazia del territorio, come ad Asti nel 1191, nel caso dello sconfitto marchese di Saluzzo che viene obbligato a essere cittadino di Asti «per sempre e possedere casa propria in Asti e […] in seguito non dovrà obbligare né alienare per feudo per nessun titolo», obbligo dunque di possesso, per così dire ricognitivo della sua dipendenza, al quale fanno seguito gli impegni militari (doc. 12). Non sempre, tuttavia, si trattava di un'imposizione forzosa, ma di una scelta politica in grado di garantire la protezione del comune a nuclei signorili o a proprietari del contado minacciati da concorrenze diverse, e appare difficile, in certi casi, stabilire se si trattasse di migrazione vera e propria, anche perché pare di capire che l'interesse del comune, più che a un incremento demografico stabile, fosse piuttosto rivolto all'aiuto militare e all'esazione degli oneri fiscali che l'accettazione del cittadinatico comportava.

Così ad Alba nel 1193 due nobili del contado «si costituirono e promisero di essere cittadini di Alba e si sottoposero alla giurisdizione di Alba per tutto il loro allodio [1] e per tutto ciò che avevano e che avranno […] e pertanto siano cittadini di Alba e facciano le consuetudini comuni [comunancias] come gli altri cittadini che abitano permanentemente in Alba e delle loro cose di null'altro siano richiesti […] se non di quello che è riscosso nei confronti degli altri cittadini che permanentemente abitano in Alba» (doc. 13); da queste clausole si evince la natura del cittadinatico che costituisce un atto di subordinazione al comune e un impegno a partecipare alle consuetudini cittadine e alle contribuzioni fiscali valutate sulla base dei beni fondiari. Soltanto un confronto sistematico fra cittadinatici ed elenchi dei consiglieri partecipanti alla credenza può però determinare la reale incidenza demografica e soprattutto politica che all'interno della città e della sua amministrazione può aver avuto il moltiplicarsi del vincolo di cittadinanza fra il ceto eminente del contado. Non dimentichiamo infatti che nella costituzione di uno «stato territoriale» (cfr. oltre, Quarta sez.) il comune, un po' ovunque, ricorse a forme di cittadinatico collettivo nei confronti delle comunità rurali di antica origine e delle villenove da esso fondate, che non erano altro che l'estensione di una supremazia giurisdizionale e fiscale sul territorio dipendente, nel tentativo di creare una situazione giuridica omogenea, analoga, in qualche modo, all'attuale concetto di cittadinanza nazionale.

Altro è infatti il generico cittadinatico che sancisce una dipendenza giuridica, altro è il preciso «abitacolo», come è definito in molte città del Piemonte, che prevede il trasferimento definitivo dalla campagna alla città, e soltanto quest'ultima forma si può considerare l'indubbio segno di un incremento demografico, controllato dalle autorità comunali, ma certo provocato dall'attrazione esercitata dalla città in fase di sviluppo economico. Numerosi sono gli atti di questo tipo stipulati nel primo quarto del Duecento dal comune di Alba, in quegli anni in fase di espansione urbanistica, e seguono tutti il medesimo schema: l'immigrato si fa «civis et habitator», accolto dai funzionari preposti ad accogliere i nuovi cittadini, per sé e per i suoi eredi, con la famiglia e tutti i suoi beni mobili, «in perpetuum» e giura di fare «stallum», di abitare nella città o nei nuovi borghi suburbani a volontà dell'autorità comunale, impegnando in questa promessa tutti i suoi beni; il comune, dal canto suo, concede l'esenzione dalle imposte per vent'anni e promette di mettere a disposizione del nuovo cittadino la casa o l'area edificabile in cui andrà ad abitare. L'esenzione fiscale e la disponibilità di un'area edificabile – specie nel caso di borghi suburbani – denunciano la precisa volontà politica di incremento demografico, ma va detto che spesso la prima concessione compare anche nei cittadinatici senza obbligo di residenza, rappresentando pur sempre un notevole incentivo alla sottomissione (doc. 14). Talvolta, nel corso del Duecento, il cittadinatico «signorile» può prevedere anche norme relative all'inurbamento delle popolazioni rurali: dopo le rituali clausole di reciproca difesa, il podestà in questo caso promette di non accogliere come abitante alcun dipendente del signore, a meno che il dipendente non lasci tutti i suoi possessi fondiari al signore e si trasferisca in città o altrove; in questo modo, con lo stesso atto, il comune ottiene la cittadinanza di un signore e al tempo stesso si preoccupa di lasciare aperta la possibilità di sottrargli dei dipendenti, a beneficio di un più diretto controllo su di essi e di un eventuale aumento della popolazione cittadina (doc. 15).

Alla metà del Duecento l'orientamento dei comuni a potenziare l'afflusso di nuovi immigrati in città è abbastanza diffuso: a Siena nel 1262 un decreto comunale stabilisce che «un centinaio di uomini devono essere fatti venire dal contado a vivere a Siena», ma si tratta di una scelta selettiva, poiché, come viene specificato, devono essere fra i migliori, i più ricchi e in età giovanile e ciascuno sarà obbligato a costruire entro l'anno una casa a Siena (doc. 16). Normalmente, però, anche i comitatini, purché non dipendenti da cittadini senesi di pieno diritto (civis assidualis), possono entrare a far parte della cittadinanza, «per utilità e aumento della città», a patto di abitare con tutta la famiglia per quattro mesi all'anno e di sottoporre ad allibramento i propri beni al comune (doc. 17). Il possesso fondiario, anche se molto modesto, è comunque il presupposto indispensabile per l'assunzione del diritto di cittadinanza. Come ha indicato Plessner in un suo ormai famoso lavoro, l'emigrazione a Firenze che ci è dato di verificare sulle fonti in nostro possesso è stata costituita in netta prevalenza dai liberi possessori, mentre appare costante l'impegno dei comuni a impedire o limitare la fuga verso la città dei coltivatori dipendenti, cioè di quei villani che coltivano i beni dei cittadini e il cui abbandono avrebbe pregiudicato l'economia agraria su cui poggiava l'approvvigionamento della città. Anche il Costituto di Siena è, a questo proposito, particolarmente severo: non esclude, come abbiamo visto, l'ingresso nella cittadinanza per i contadini, anche dipendenti da cittadini, purché sul podere rimangano almeno tre individui maschi e l'inurbato lasci a loro la sua parte in concessione; nessuna agevolazione viene invece fatta per i fuggitivi, villani che abbandonino senza autorizzazione le terre affidate alla loro coltivazione: in questo caso il podestà non solo non potrà accoglierli come cittadini ma, se richiesto dal signore, sarà obbligato a riconsegnarglieli (doc. 17). Ciò non esclude, tuttavia, che l'afflusso dei ceti inferiori della campagna si sia in qualche misura realizzato – per quanto scarsamente documentato dalle fonti ufficiali – altrimenti, come ha opportunamente rilevato Luzzatto, non si spiegherebbe «di dove possa essere venuta, se non dalla campagna e dagli strati più umili della popolazione rurale», la massa dei più umili lavoratori impegnati nell'industria e nei servizi di fatica, che vive in città dalla seconda metà del Duecento e nel Trecento, senza godere di quei diritti di cittadinanza riservati ai proprietari.

Uno statuto di Lucca – inedito, ma di cui dà notizia Vaccari – ad esempio, concede la cittadinanza a tutti i rustici che esercitano da almeno cinque anni un'arte in città come magistri, ma non a quelli che si trovano nella condizione di famuli o discipuli: questi ultimi, ne inferisce Luzzatto, non potevano pertanto che essere reclutati dalla più umile categoria della campagna, quella dei manenti – esplicitamente esclusa in precedenza dalle disposizioni che facilitavano ai rustici l'accesso nella cittadinanza –, di condizione inferiore rispetto a quella dei liberi proprietari e degli affittuari che, inurbandosi, avevano la possibilità economica di diventare magistri.


4. Grazie all'attrazione esercitata sulla campagna, nel corso di tre secoli la popolazione urbana ha avuto un incremento demografico notevolissimo: la città ora ospita così una cittadinanza di pieno diritto formata da famiglie di antica origine e da altre di più recente acquisizione immigrate dal contado dove posseggono beni fondiari o diritti signorili, tutte ugualmente sottoposte a obblighi militari, fiscali e di residenza continuativa o temporanea, e insieme con essa vive una popolazione di origine rurale priva della pienezza dei diritti e non meglio definibile: sia per i cives sia per i non cives la mobilità fisica sembra però massima e l'insieme della popolazione – come ha sottolineato anche Waley – non appare fortemente radicata all'abitazione cittadina.

Tale indeterminatezza accresce la difficoltà di valutare in cifre l'espansione urbana, essendo anche molto rare le fonti statistiche: solo per Firenze, forse, abbiamo un numero maggiore di informazioni che hanno favorito una certa ricchezza di studi demografici, i quali ritengono che la popolazione sia raddoppiata dalla metà del XII secolo alla metà del XIII, passando da 30.000 a 60.000 per raggiungere poi le 100.000 unità all'inizio del Trecento, valore attorno a cui rimase stazionaria fino alla peste e alla recessione che la ridussero circa della metà. Fonte indiretta, ma molto significativa, il progressivo ampliamento della cinta muraria, ricordata dai cronisti e dai documenti amministrativi.

Il cronista Malispini alla fine del Duecento scrive che nell'anno 1078 si ebbe un forte ampliamento delle mura e la sua descrizione viene ora accolta dalla critica solo per ciò che riguarda lo schema topografico ma non per la cronologia, che è dagli storici concordemente spostata di un secolo, al 1172-75 (doc. 18). All'inizio del XIII secolo, tuttavia, il settore orientale della periferia fiorentina, secondo Sznura, presenta ancora ampie fasce di terreni vacui, inglobati entro le maglie più avanzate del tessuto edilizio; nel 1284 il comune decide di costruire la nuova cinta muraria dalle dimensioni enormi rispetto alle precedenti per far fronte all'aumento demografico della popolazione cittadina che ha ormai occupato l'area esterna alle mura del XII secolo. La costruzione va naturalmente per le lunghe, anche per il grave onere finanziario che il comune deve sostenere sia per acquistare il terreno necessario, sia per appaltare i lavori di muratura (doc. 19/a). La «fame» di aree edificabili e di materiale edilizio da parte dei privati all'interno dei nuovo recinto murario, ancora in fase di costruzione, è invece denunciata da una decisione comunale del 1301, con la quale si fa divieto di alienare il sito delle mura vecchie finché non siano ultimate quelle nuove, indizio non ultimo di una notevole pressione della domanda di residenze urbane (doc. 19/b).

Fonte diretta del cresciuto peso demografico è la famosa pagina di Villani (doc. 20), una delle poche veramente statistiche, nonostante i dubbi che non ha mancato di sollevare, nella quale il cronista descrive minuziosamente lo stato della popolazione e delle aree urbane occupate: «25 mila uomini da portare arme da 15 in 70 anni […] 90 mila bocche tra uomini e femine e fanciulli», secondo il computo del consumo giornaliero di pane, 1.500 forestieri, senza contare «religiosi e frati e religiose», residenti in permanenza nelle 110 chiese della città e dei borghi. La città era poi articolata in 57 parrocchie e «albergata di molti belli palagi e case», mentre per 6 miglia attorno, cioè nell'area suburbana «avea più d'abituri ricchi e nobili, che recandoli insieme due Firenze avrebbono fatte».

Sebbene Firenze nella prima metà del Trecento si presentasse come un caso eccezionale con le caratteristiche di quella che oggi si potrebbe definire una metropoli, la tendenza di cui rappresenta una punta avanzata era comune a tutte le città dell'Italia centro-settentrionale, divenute nel corso di un secolo centri dall'elevato grado di agglomerazione per il massiccio apporto demografico dal contado. Avvicinabile alla situazione fiorentina è infatti la descrizione di Milano fatta, non senza qualche evidente esagerazione, sul finire del Duecento da Bonvesin da la Riva: di fronte all'elevato numero di abitanti della città, il cronista avverte retoricamente che non è possibile contarli, anche se poi propone la cifra di 200.000 ed elenca, come Villani, il numero degli addetti alle varie attività (doc. 21). Dati probabilmente eccessivi, legati al procedimento dell'enumerazione e all'uso dell'iperbole, ma che offrono un'immagine vivace e complessa della vita cittadina della fine del Duecento, confermando il peso determinante dell'incremento demografico realizzatosi nel corso di poco più di un secolo dalla gravissima depressione causata dalla distruzione della città a opera del Barbarossa.

La popolazione urbana della fine del Duecento tocca dappertutto limiti elevati e non soltanto nelle metropoli: ne è prova la costruzione in quegli anni di una nuova cerchia di mura, che si ritrova in quasi tutte le città, ma il «tetto» raggiunto in quel periodo tende bruscamente a scendere nel mezzo secolo successivo. La caduta, com'è noto, coincide in gran parte con la Grande Peste del 1348, ma una graduale discesa è già avvertibile negli anni precedenti: prima ancora del peso decisivo dell'epidemia, le città, specie le maggiori, appaiono sovrappopolate e risentono del problema gravissimo dell'approvvigionamento, denunciando l'impossibilità di sopravvivenza a un grado tale di agglomerazione con le risorse sempre limitate delle campagne circostanti. Le note scarne e insieme drammatiche del Libro del Biadaiolo (doc. 22) relative alla penuria di grano a Firenze e alle sommosse delle plebi urbane, represse dai tutori dell'ordine pubblico, sono eloquenti, forse più di ogni statistica, sulla mancanza di un surplus adeguato all'elevata urbanizzazione.


In conclusione, il rapporto fra popolazione e città, pur nelle trasformazioni che subisce nel corso del Medioevo, può essere considerato sotto due aspetti diversi ma collegati, che manifestano carattere di continuità e generalità. Un aspetto riguarda il numero degli abitanti, l'altro la loro natura. Per il numero si può affermare che, pur essendo concettualmente indipendente dalla definizione di città – che esiste comunque, anche se la popolazione decresce a dimensioni molto ridotte – il suo accrescimento conosce il limite invalicabile costituito dalle possibilità, di volta in volta circoscritte, di sostentamento di una popolazione non direttamente attiva nel settore primario. Riguardo alla natura degli abitanti, occorre rilevare che solo una parte di essi è dotata della pienezza dei diritti, e che solo questa parte è rappresentativa della città, ne esprime il significato giuridico e ne determina le scelte politiche. Il fenomeno dinamico di accrescimento urbano va confrontato con questi due aspetti, poiché li investe entrambi mettendoli in relazione con il sistema territoriale in cui la popolazione della città è inserita: cresce infatti per immigrazione dalla campagna il numero totale dei residenti, con un progressivo, anche se non automatico (una fascia resterà esclusa), incremento del numero dei cives a pieno diritto, e in parallelo cresce l'area di sostentamento urbano (prima con la formazione di un distretto vescovile, poi con la creazione di un territorio comunale in cui i rurali sono soggetti a rigida disciplina). Questo processo di duplice incremento – di popolazione cittadina e di area di sfruttamento urbano – si verifica pressoché in tutte le città dell'Italia centro-settentrionale con intensità diversa a seconda delle diverse capacità di attrazione dei centri e si interrompe quando il rapporto denuncia un valore negativo da parte dell'area di sostentamento divenuta insufficiente a far fronte al sovrappopolamento.

Nota bibliografica

1. Sui problemi della demografia storica cfr. K. J. BELOCH, Bevölkerungsgeschichte Italiens, Berlin, de Gruyter, 1937-61; C. M. CIPOLLA – J. DHONDT – M. POSTAN – P. WOLFF, relazione al IXe Congrès international des sciences historiques, Paris, 1950, I, Rapports; R. MOLS, Introduction à la démographie historique des villes d'Europe du XIVe au XVIIIe siècle, Louvain, Gemblox, Duculot, 1954-56, 3 voll.; J. HEERS, Les limites des méthodes statistiques pour les recherches de démographie médievale, in «Annales de démographie historique», 1968; M. R. REINHARD – A. ARMENGAUD – J. DUPAQUIER, Histoire générale de la population mondiale, Paris, 1968; P. GUILLAUME - J. P. POUSSOU, Démographie historique, Paris, Colin, 1970; J. DUPAQUIER, Introduction à la démographie historique, Paris, PUF, 1974; J. C. RUSSEL, La popolazione europea dal 400 al 1500, in Storia economica d'Europa, diretta da C. M. Cipolla, I: Il Medioevo, Torino, Utet, 1979 (The Fontana Economic History of Europe).


2. Sulla popolazione cittadina dell'età longobarda le notizie sono molto scarse: occorre dunque usare con una certa prudenza gli studi a essa relativi, talora troppo esuberanti nell'interpretare i dati; vedi, comunque, C. G. MOR, Appunti sull'amministrazione cittadina in età longobarda, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, Cedam, 1975; P. M. CONTI, I «cives Lunenses» e la condizione cittadina nell'età longobarda, in «Archivio storico per le province parmensi», serie IV, XX, 1968; dello stesso autore, «Exceptores» e «cives». Consuetudine e diritto nelle città dell'età longobarda, in «Studi medievali», serie III, XXIII, 1982. Per l'età successiva cfr. in generale G. TABACCO – G. FASOLI – R. MANSELLI, La struttura sociale delle città italiane dal V al XII secolo, in Untersuchungen zur gesellschaftliche Struktur der mittelalterliche Städte in Europe, (Vorträge und Forschungen, 11), Konstanz, Sigmaringen, Thorbecke, 1966; per Milano in particolare cfr. C. VIOLANTE, La società milanese nell'età precomunale, Bari, Laterza, 1953.


3. Per l'età comunale, sul problema dell'appartenenza alla cittadinanza cfr. D. WALEY, Le città-repubblica nell'Italia medievale, Milano, Il Saggiatore, 1969 (nuova ed. Torino, Einaudi, 1980); D. BIZZARRI, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale, in «Studi senesi», XXXII, 1916; per Asti, R. BORDONE, Assestamenti del territorio suburbano: le «diminutiones villarum veterum» del comune di Asti, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXXVIII, 1980. Sui problemi demografici dell'età comunale cfr. E. FIUMI, La popolazione del territorio volterrano sangiminianese e il problema demografico dell'età comunale, in Studi in onore di A. Fanfani, I, Milano, Giuffrè, 1962; dello stesso autore, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall'età comunale ai tempi moderni, Firenze, Olschki, 1968; A. I. PINI, Problemi demografici bolognesi del Duecento, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», XVI-XVII, 1969; dello stesso autore, La popolazione di Imola e del suo territorio nel XIII e XIV secolo, Bologna, Patron, 1976; dello stesso autore, Un aspetto dei rapporti tra città e territorio nel Medioevo: la politica demografica «ad elastico» di Bologna fra il XII e il XIV secolo, in Studi in memoria di Federico Melis, I, Napoli, Giannini, 1978; E. GUIDONI, Residenza, casa e proprietà nei patti fra feudalità e comuni (Italia, secc. XII-XIII), in La città dal Medioevo al Rinascimento, Bari, Laterza, 1981. Sui cittadinatici della tarda età comunale cfr. W. B. BOWSKY, Medieval Citizenship. The Individual and the State in the Commune of Siena (1287-1355), in «Studies in Medieval and Renaissance History», IV, 1967; dello stesso autore, Cives Silvestres: Sylvan Citizenship and the Sienese Commune (1287-1355), in «Bullettino senese di storia patria», LXXII; 1965; M. B. BECKER, An Essay on the «Novi cives» and the Florentin Politic (1343-1382), in «Medieval Studies», XXIV, 1962; G. PICCINNI, I «villani incittadinati» nella Siena del XIV secolo, in «Bullettino senese di storia patria», LXXXII-LXXXIII, 1975-76. Il dibattito Plesner-Luzzatto sull'inurbamento si può ora ritrovare nella riedizione dei due saggi, rispettivamente J. PLESNER, L'emigrazione dalla campagna alla città libera di Firenze nel XIII secolo, Firenze, Papafava, 1979 (già Köbenhaven, 1934) e G. LUZZATTO, L'inurbamento delle popolazioni rurali in Italia nei secoli XII e XIII, in Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966 (già in Studi di storia e diritto in onore di Enrico Besta, Milano, 1939).


4. Sull'espansione urbana di Firenze cfr. G. PAMPALONI, Firenze al tempo di Dante. Documenti sull'urbanistica fiorentina, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1973 e F. SZNURA, L'espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze, La Nuova Italia, 1975; sulla demografia fiorentina: A. RODOLICO, Note statistiche su la popolazione fiorentina del XIV secolo, in «Archivio storico italiano», serie V, XXX, 1902; G. PARDI, Disegno della storia demografica di Firenze, in «Archivio storico italiano», serie V, LXXIV, 1916; P. BATTARA, Le indagini congetturali sulla popolazione di Firenze fino al Trecento, in «Archivio storico italiano», XCIII, 1935; E. FIUMI, La demografia fiorentina nelle pagine di G. Villani, in «Archivio storico italiano», CVIII, 1950; dello stesso autore, Fioritura e decadenza dell'economia fiorentina, in «Archivio storico italiano», CXV, 1957; CVI, 1958; CXVII, 1959; A. FRUGONI, G. Villani, Cronica XI, 94, in «Bullettino dell'istituto storico italiano per il Medioevo», LXXII, 1956. Sulla «crisi del Trecento»: G. PINTO, Il Libro del Biadaiolo. Carestie e annona a Firenze dalla metà del '200 al 1348, Firenze, Olschki, 1978; E. CARPENTIER, Une ville devant la peste. Orvieto et la peste noir, Paris, SEVPEN, 1962; J. M. W. BEAN, Plague, Population and Economic Decline in Later Middle Age, in «The Economic History Review», serie II, XV, 1963; C. M. DE LA RONCIÈRE, Pauvres et pauvreté à Florence au XIVe siècle, in M. MOLLAT (a cura di), Études sur l'histoire de la pauvreté, II, Paris, 1974. Sui problemi demografici del basso Medioevo cfr. R. COMBA, La popolazione in Piemonte sul finire del Medioevo, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1977 (Biblioteca storica subalpina, 199).

[1] allodio, bene posseduto in piena proprietà.

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2005