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Didattica

Fonti

Predicazione e vita religiosa nella società italiana (da Carlo Magno alla Controriforma)

a cura di Roberto Rusconi

© 1981-2006 – Roberto Rusconi


Sezione IV - La predicazione evangelica e la Riforma protestante in Italia

Introduzione

Nella seconda metà del '400 il tessuto della società italiana comincia a mostrare crepe vistose: l'equilibrio nel sistema politico, assicurato faticosamente dalla pace di Lodi del 1454, è una effimera acquisizione. È il ruolo stesso della penisola nel sistema politico internazionale — in cui vanno crescendo, con sempre maggiore rapidità, le fortune degli stati nazionali e nella divisione internazionale del lavoro ad essere messo in discussione. Le guerre d'Italia, nei decenni a cavallo tra la fine del '400 e gli inizi del '500, e l'affermazione del predominio spagnolo sulla penisola non fanno altro che siglare un declino irreversibile.

Questa situazione di forte instabilità sociale, economica, politica, ha certo i suoi riflessi sul piano della vita religiosa: a livello istituzionale, con il coinvolgimento della chiesa nel sistema politico degli stati italiani. Per quanto riguarda, poi, in particolare la predicazione, essa continua più o meno stancamente o vivacemente nelle sue forme ormai consolidate. Se ne può trovare una riprova facendo scorrere i cataloghi delle prime opere uscite dai torchi della stampa a caratteri mobili, nell'ultimo quarto del '400: in gran parte di soggetto religioso, vi si ripropongono raccolte di prediche latine (sermonari), che non si discostano in nulla dai modelli e dalle forme affermatisi alla fine del medioevo.

Sintomo e nello stesso tempo rimedio alla crisi montante è il crescente interesse che nella predicazione quattrocentesca è riservato alle «questioni sociali»: il prestito a usura, il piccolo credito monopolizzato da banchieri giudaici (con ripetuti rigurgiti di anti-giudaismo, come valvola di sfogo per le tensioni esistenti), la promozione di un nuovo istituto di credito su pegno, il Monte di pietà. In questa chiave si può anche leggere la propaganda a favore delle nuove confraternite laicali, o per il rinvigorimento delle antiche: quasi che, anche in questa forma, promuovendo istituzioni di associazionismo religioso dei laici, si volesse cercare di mantenere la compattezza del tessuto sociale.

Eppure, proprio in sintonia con la «crisi» che attanaglia la società italiana alla fine del medioevo, appaiono fermenti al margine del pesante corpo delle istituzioni ecclesiastiche: certo, però, tracce forse più di disgregazione che non di apertura di nuove prospettive alla vita religiosa italiana sulla soglia dell'età moderna. A partire dagli anni '70 del secolo XV sciamano per la penisola predicatori itineranti di penitenza, tutti riconducibili certo non ad una determinata organizzazione, quanto ad un tipo preciso (doc. 1). Le fonti in genere li indicano come «romiti» (eremiti). Indifferentemente chierici o laici, essi perseguono volutamente una linea di azione non ufficiale, al di fuori delle istituzioni. Appellandosi ad una diretta ispirazione divina, percorrono le strade della penisola, predicando nelle chiese e nelle piazze che è necessario fare penitenza, perché si avvicina la fine del mondo profetata nell'Apocalisse di san Giovanni. A dare autorità alle loro parole è il loro stesso aspetto esteriore di eremiti: scalzi, vestiti di pelle o di sacco, con la barba irsuta, con una grande croce in mano.

L'ostilità degli ambienti religiosi ufficiali di fronte a questi fenomeni (doc. 2) è destinata a crescere dopo la tempestosa vicenda che a Firenze ha per protagonista Gerolamo Savonarola. Giunto, con il passare degli anni, alla convinzione di essere chiamato ad un destino profetico (doc. 3), il frate domenicano ferrarese sconvolge con le sue predicazioni apocalittiche e politiche Firenze: anche se, a dire il vero, taluni dei suoi ascoltatori sono attratti più dal messaggio religioso tradizionale delle sue prediche (doc. 4), che non dalle sue infiammate visioni, puntualmente annotate dai suoi seguaci (doc. 5). Più che i risvolti della sua disgraziata utopia, a tal punto radicata nella realtà fiorentina del tempo che solo una distorsione polemica può far considerare la sua vicenda come pre-luterana, ne sono importanti le implicazioni: per la prima volta, infatti, in concomitanza con il fenomeno savonaroliano, si realizza un'alleanza dei mezzi di comunicazione di massa per assicurare la diffusione di nuove idee. Gli ascoltatori delle prediche del domenicano, infatti, le «riportano» con il metodo tachigrafico, e subito le affidano ai torchi della stampa, per consentire una più vasta e radicata diffusione del suo messaggio religioso e politico. Lo stesso Savonarola, ad un certo punto, ricorre direttamente alla stampa e le affida i propri scritti, redatti in volgare.

Conclusasi tragicamente sul rogo la vicenda di Savonarola, nel 1498, nei due decenni successivi a più riprese compaiono a Firenze predicatori itineranti, appartenenti agli ordini religiosi (doc. 6) o semplici impostori (doc. 10), i quali annunciano dal pulpito il compimento delle profezie del frate ferrarese e l'avvento della fine del mondo. Di fronte a questi fenomeni, che senza dubbio mettono in gran fermento la città, personaggi come Niccolò Machiavelli manifestano un profondo ed ironico scetticismo (doc. 7): d'altra parte sono ripetuti nella letteratura umanistica (doc. 8) e nella narrativa di questi decenni (doc. 9) lamenti e critiche nei confronti della decadenza della predicazione tardo-medievale.

Diverso appare l'atteggiamento della gerarchia ecclesiastica. Se nel 1513, quando a Roma è radunato il quinto concilio del Laterano, si progetta una riforma della chiesa di ampio respiro, in cui il clero venga formato direttamente sulla Scrittura per assicurare una predicazione assidua e regolare al popolo (doc. 11), prevalgono in realtà le preoccupazioni di carattere disciplinare. Proprio il concilio, nel 1516, approva norme che limitano fortemente la libertà di stampa e altre che mirano ad arginare la predicazione apocalittica post-savonaroliana, senza con questo prevedere nuove forme di predicazione (doc. 12). I decreti del concilio provinciale fiorentino del 1517, nell'ottica di arginare i risvolti anti-medicei della predicazione itinerante in Toscana, fanno un passo ulteriore: cercano di sottoporre l'attività dei predicatori, i quali non facciano parte del clero diocesano, al controllo dei vescovi (doc. 13).

Questi provvedimenti finirono con l'avere una portata assai limitata, proprio per il loro carattere meramente repressivo: le esigenze e le aspirazioni religiose, che nella predicazione itinerante di profeti e «romiti» trovavano espressione, erano più ampiamente radicate di quanto non credesse la classe dirigente ecclesiastica.

Un esempio assai significativo di questa situazione variegata, che caratterizza la predicazione in Italia agli inizi del '500, è il sorgere dell'ordine dei cappuccini. Alla fine del '400 alcuni frati dell'ordine dei minori, i quali aspirano ad una sua riforma in senso rigoristico, si ritirano a condurre vita eremitica ed intraprendono la predicazione itinerante, non diversamente dagli altri «romiti» del tempo (doc. 14). Divenuti un vero e proprio ordine religioso, forniscono uno sbocco istituzionale alla predicazione itinerante di penitenza.

Nel frattempo, però, ha luogo un avvenimento destinato a modificare le coordinate della storia, e non solo di quella religiosa. A Wittenberg, in Germania, la vigilia di Ognissanti del 1517, un frate agostiniano, Martin Lutero, invia ad Alberto, marchese di Brandemburgo, una lunga lettera, in cui lo invita a procedere contro la predicazione delle indulgenze e la raccolta delle elemosine per la costruzione della basilica romana di S. Pietro da parte del domenicano Johannes Tetzel. La polemica di Lutero è condotta contro una delle pratiche più ambigue della predicazione tardo-medievale. Infatti, per quanto fossero sottili le distinzioni di teologi e canonisti al proposito, difficilmente i comuni fedeli non consideravano l'elemosina un prezzo pagato per acquistarsi un'indulgenza, e in questo modo scontare parte della pena che li attendeva in purgatorio, nell'altra vita.

La «protesta» di Lutero fece esplodere una situazione politica già estremamente tesa. L'esito finale fu la spaccatura verticale della società cristiana europea in «cattolici» e «protestanti». Nel corso del contrasto con Roma, Martin Lutero, accentuando alcuni motivi teologici derivanti dalle opere disant'Agostino, formulò una serie di dottrine che portarono alla scomunica del 1520.

La sostanza della «heresia lutherana» consiste, grosso modo, nel far venire meno la necessaria funzione mediatrice della istituzione ecclesiastica ai fini di conseguire la salvezza dell'anima dei singoli cristiani. Essi debbono, invece, avere libero accesso alle Scritture, tradotte in volgare perché le possano comprendere, e trarre direttamente dalla Bibbia le prescrizioni che regolino la loro vita religiosa. Per Lutero la salvezza dell'anima non è più assicurata dall'accumulazione di meriti su meriti, erogando elemosine e compiendo buone azioni: la giustificazione (il termine è di sapore forense) si ottiene solo per mezzo della fede in Cristo crocifisso, redentore del genere umano. Le implicazioni di queste asserzioni sono enormi: negazione del primato papale, di sacramenti come la confessione, eccetera.

Indipendentemente dal diffondersi delle «idee d'oltralpe» in Italia, peraltro abbastanza lento e limitato, negli anni '30 del secolo XVI prende corpo in taluni ambienti ecclesiastici un complesso di istanze di riforma religiosa, di solito indicate con il termine complessivo di «Evangelismo» italiano, per sottolineare il loro principale obiettivo: rinnovare il cattolicesimo mettendo al suo centro il testo dell'Evangelo e riformare la vita religiosa partendo da questo stretto contatto con la parola di Dio tramandata nella Bibbia. Quando i suoi esponenti principali giungono a responsabilità di governo di una diocesi, come Gian Matteo Giberti a Verona, sono estremamente attenti ai risvolti istituzionali di queste loro aspirazioni. Ed allora impostano un'articolazione della vita religiosa in cui la predicazione in volgare — di fatto monopolio degli ordini religiosi — viene a perdere il suo carattere di eccezionalità, per divenire invece uno dei compiti fondamentali del clero parrocchiale, come semplice lettura e illustrazione del Vangelo (doc. 15). Per rendere possibile una predicazione così lontana dai canoni ormai sclerotizzati del sermo modernus tardo-medievale, è necessario però fornire al clero diocesano strumenti di formazione, redatti in lingua volgare, perché questi chierici poco istruiti li possano comprendere (doc. 16).

Questa apertura fa entrare nella predicazione ordinaria i temi più dibattuti delle controversie teologiche del tempo, come la predestinazione delle anime (doc. 17): più che non quello della giustificazione per mezzo della sola fede, più segnato in senso luterano. La predestinazione delle anime individuali alla salvezza eterna appare un argomento ripetutamente trattato nel decennio che precede il 1542, quando si assiste a una sorta di liberalizzazione della parola ai predicatori. I motivi sono principalmente due. Per la sensibilità religiosa del tempo, si tratta di una questione teologica particolarmente sentita anche a livello della massa degli ascoltatori delle prediche, dei comuni fedeli, in quanto tocca direttamente il piano delle preoccupazioni per la salvezza eterna di ciascuno (prospettiva quest'ultima, è bene ricordarlo, che era stata alla base della predicazione morale tardo-medievale, sino ai limiti dell'ossessione). A rendere poi i predicatori particolarmente sensibili a questa tematica non era solo un'attenzione marcata alla nuova sensibilità religiosa dei fedeli oppure un orecchiare temi dibattuti dai «lutherani», ma soprattutto la loro tradizionale formazione teologica: in particolare, per i frati dell'ordine degli eremiti di sant'Agostino, per i quali la familiarità con le opere dell'antico vescovo di Ippona rendeva questi argomenti molto sentiti ed attuali.

Per quanto astratte o inconsistenti possano sembrare oggi queste prediche, esse attirano un grande concorso di folla, in particolare tra la nobiltà del tempo (doc. 26). Questo tipo di predicazione, certo non riconducibile ad una adesione alle idee «lutherane», genera immediatamente il sospetto negli ambienti curiali, ormai fino in fondo coinvolti nella contrapposizione con la rivolta protestante. Si moltiplicano i casi di coloro che, predicando dal pulpito sulla linea di un agostinismo radicalizzato, ma ancora ben all'interno dell'ortodossia cattolica, vengono denunciati come eretici. Succede ad Agostino Mainardi ad Asti nel 1532 (doc. 18), ma nel 1535 egli riesce a far riconoscere la sua ortodossia, sia pure a determinate condizioni (doc. 22). Succede ad Agostino da Treviso, a Siena, nel 1537, ma a distanza di pochi anni la situazione si è notevolmente irrigidita: ad Agostino da Treviso viene imposto di tornare a Siena nel 1538 per predicarvi un preciso elenco di temi, che correggano le sue precedenti dichiarazioni (doc. 24).

Di fronte a questi casi ripetuti — in cui, in sostanza, il singolo predicatore si limita a rivendicare la sua assoluta libertà nell'annuncio evangelico — prende corpo quel criterio della doppia verità, che costituisce la linea maestra su cui si attesta lo schieramento istituzionale: si tratti dei rappresentanti della curia, come Tommaso Badia (doc. 18), oppure degli ambienti dell'Evangelismo italiano, come nel caso del cardinal Contarini (doc. 25). Le materie più «difficili» della religione cristiana — la predestinazione, la giustificazione per fede, il libero arbitrio — non sono adatte per la predicazione al popolo, che nella sua gran parte è ignorante, ma solo alla discussione all'interno di una cerchia ristretta di dotti e di teologi.

Questi anni '30 del '500 restano pur sempre un periodo di intensa predicazione. Il comune denominatore di molti episodi è il ruolo centrale assegnato alla Scrittura, che deve esser letta e illustrata in lingua volgare (doc. 19): su questa posizione si attestano anche i seguaci italiani dell'umanista olandese Erasmo da Rotterdam (doc. 20) ed il predicatore più famoso della prima metà del secolo, il cappuccino Bernardino Ochino da Siena (doc. 21). L'esigenza della predicazione evangelica è addirittura considerata una norma nelle costituzioni dell'ordine dei frati minori cappuccinidel 1536 (doc. 23). I tempi, però, stanno bruscamente cambiando, si stanno già manifestando segni di irrigidimento dottrinale e disciplinare, e nulla meglio della vicenda personale di Benardino Ochino serve ad illustrarlo.

Di formazione teologica molto tradizionale, nelle sue prediche anteriori al 1542 non è difficile individuare profonde influenze degli autori francescani più classici del medioevo, come Giovanni Duns Scoto e san Bonaventura. Dopo l'incontro a Napoli con lo spagnolo Juan de Valdés, tra il 1536 e 1539, nelle sue prediche cominciano ad apparire argomenti che destano il sospetto nelle autorità ecclesiastiche, ormai ossessionate nella vigilanza a prevenire la diffusione in Italia dell'«heresia lutherana». Per questo motivo Ochino ritiene di dovere difendere la ortodossia delle proprie prediche, alla fine della Quaresima del 1539, a Venezia (doc. 27). E certo, almeno a giudicare dal breve riassunto frammentario che ci è stato trasmesso di una predica pronunciata da Ochino a Siena nel 1540, un certo margine di ambiguità (o indecisione?) con il tempo cresce nelle sue parole: anche se certo non si è in presenza di affermazioni criptoprotestanti (doc. 28).

Mentre gli avvenimenti precipitano, con l'istituzione del tribunale dell'inquisizione nel 1542, si registrano le ultime manifestazioni della linea di rinnovamento della predicazione in senso evangelico: le istruzioni per i predicatori del cardinal Contarini (che però muore in quel fatidico 1542) e le costituzioni sinodali del vescovo di Verona, Gian Matteo Giberti, approvate in quello stesso anno (ma nel 1543 il Giberti muore) (doc. 29). Ormai, però, la questione dei predicatori è un affare riservato all'occhio attento degli inquisitori: uno di essi riferisce alla curia romana sulle prediche quaresimali di Ochino a Firenze (doc. 30), ma questo è solo un esempio tra i tanti.

Convocato a Roma davanti al Sant'Uffizio, Ochino prende la via della fuga e valica le Alpi nel 1542. Da questo momento diviene ovvio interpretare tutta la sua predicazione precedente in chiave di propaganda cripto-protestante (doc. 31). In verità, quando si leggono le prediche di Ochino stampate proprio nel 1541-1542, ci si rende conto che non vi si trovano affatto affermazioni eretiche, in materie che erano oggetto della contrapposizione tra cattolici e protestanti: la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, il purgatorio, il sacramento della confessione, l'obbedienza al papa, il digiuno, le buone opere. Eppure bisogna domandarsi se tutto fosse così lineare e semplice. I testi a stampa, infatti, non ci danno ragione delle prediche effettivamente pronunciate: i discorsi di Ochino, come quelli di molti altri predicatori, erano fatti anche di accenni, omissioni, elusioni, che spesso sfuggono alla nostra attenzione e che, invece, la sensibilità religiosa dei contemporanei — filo-protestanti ed inquisitori allo stesso modo — coglieva immediatamente, specie quando venivano trattati argomenti come la predestinazione delle anime e la giustificazione per mezzo della fede e non delle opere.

In realtà, alla base della predicazione di Bernardino Ochino vi era l'aspirazione dell'Evangelismo italiano a mettere al centro delle prediche la «dechiaratione de li evangelii». Costretto a darsi alla fuga, anche Ochino rileggerà in chiave «protestante» la sua attività di predicatore e cercherà, come gli inquisitori, di accreditare una sua immagine di predicatore cripto-riformato (doc. 32). La fuga e la rottura con la chiesa di Roma inducono Ochino a rivedere, in senso nettamente calvinista, le sue posizioni teologiche: impossibilitato a predicare in Italia, vi invia clandestinamente le sue prediche a stampa (doc. 33), abbondantemente corrette e riscritte sulla base delle dottrine riformate (doc. 34).

A questo punto è necessario fare un'importante precisazione. Si è parlato di sensibilità religiosa, di ambiguità e di fluidità della predicazione, di ascoltatori attenti alle sfumature delle prediche, e così via. Questo non deve però portare a credere che la stagione della predicazione evangelica e dei tentativi di introdurre in Italia le «idee d'oltralpe» coincida con grandi mobilitazioni delle masse oppure con rivolgimenti sul piano politico. Questo si verifica in Francia e nei paesi di lingua tedesca: ed è estremamente importante che non abbia corrispettivo nella penisola. Resta pur sempre il fatto, allora, che siamo in presenza di un dibattito, di una contrapposizione, i cui protagonisti rimangono sempre all'interno del ceto dirigente ecclesiastico e di una parte ristrettissima del laicato devoto: in pratica, è solo un limitato nucleo della classe dirigente che entra nel dibattito religioso e che si schiera, facendo alla fine prevalere quella linea di restaurazione disciplinare che si indica con il termine di Controriforma.

Negli anni '50 e '60 del XVI secolo l'inquisizione arriva a mettere gradualmente le mani su una serie di predicatori i quali effettivamente svolgono una attività di propaganda delle idee riformate. All'inizio si tratta soprattutto di religiosi (doc. 35) e di chierici (doc. 36), e la clandestinità della loro predicazione non è esente da critiche da parte di coloro che hanno scelto la via dell'esilio oltralpe (doc. 37). Questi predicatori sono però troppo facilmente individuabili, e allora la diffusione delle dottrine riformate passa in mano a laici, come quell'artigiano veneziano che a Ginevra ha assistito alle prediche dei riformatori italiani (doc. 38), oppure una strana figura di mendicante (doc. 39), oppure un valligiano della Carnia (docc. 40 e 41). Sono gli ultimi sussulti, legati ad aree geograficamente marginali e a membri delle classi subalterne, dei fermenti religiosi che la Controriforma ha spento implacabilmente.

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Ultimo aggiornamento: 01/03/2006