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Didattica > Fonti > La società urbana nell’Italia comunale > III, Introduzione

Fonti

La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV)

a cura di Renato Bordone

© 1984-2005 – Renato Bordone


III – La morfologia

Introduzione

Il rapporto fra popolazione e funzione, i due elementi che abbiamo preso in esame in precedenza, si traduce fisicamente nell'aspetto più immediato che siamo abituati a considerare quando si pensa a una città: l'occupazione dello spazio, la sua articolazione in edificato e non edificato, l'esistenza, in una parola, di un «paesaggio urbano» in opposizione a un «paesaggio rurale», formato da un piano generale e da una particolare composizione delle forme che denunciano le varie fasi dello sviluppo.

La città medievale italiana, come è stato osservato da Leonardo Benevolo, non si presenta come un reperto archeologico, ma è vivente all'interno della città attuale ed è analizzando il piano e la composizione delle nostre città che è possibile ricavare le strutture e l'impianto di quella precedente: la prima e più importante fonte per la sua storia è dunque rappresentata dalla sua stessa sopravvivenza fisica, e la documentazione scritta che la riguarda, isolata dalla realtà delle emergenze architettoniche, appare sempre parziale e limitata. Ciò è dovuto anche all'assenza, per tutto il periodo da noi preso in esame, di una produzione specificamente urbanistica da parte dei trattatisti, una produzione che conoscerà invece rigogliosa fioritura al tempo degli umanisti e degli architetti rinascimentali, quando cioè il Medioevo sarà ormai volto al termine. Non è questo il luogo per analizzare i contributi all'urbanistica forniti dalla stagione della «rinascita», ma è opportuno richiamare almeno il nome di Leon Battista Alberti, autore del trattato De re aedificatoria, per il valore di testimonianza sull'urbanistica medievale che alcune sue pagine assumono: com'è stato infatti scritto dallo storico dell'urbanistica Pierre Lavedan, Alberti descrive ciò che vede e le città che descrive sono ancora città medievali. Basti leggere il famoso passo sull'utilità pratica e scenografica delle strade tortuose per comprendere l'atteggiamento dell'autore nei confronti della realtà cittadina del suo tempo, non semplicemente descrittivo ma insieme interpretativo dei principi dell'urbanistica medievale (doc. 1).

Se dunque la meditazione urbanistica comincia con il Rinascimento – e con i progetti, spesso utopistici, degli ideatori di città mai realizzate nella realtà, quale la Sforzinde di Filarete – ciò non significa che non si possa correttamente parlare di «urbanistica medievale» intesa come modo di concepire lo spazio della città e di intervenire con atti deliberati sulla sua forma da parte dei contemporanei. Certamente non si possono ridurre i risultati a una ristretta serie di tipi di forme rigide, né appare semplice stabilire una cronologia della composizione urbana: le città medievali hanno tutte le forme possibili e si adattano liberamente a tutte le circostanze storiche e geografiche, ma presentano caratteri tendenzialmente comuni, individuati da Benevolo nella continuità, nella complessità e nella concentrazione.

La continuità edificativa è data dalla rete stradale irregolare, graduata in arterie principali e secondarie, diffusa in modo da formare uno spazio unitario, senza interruzioni, nel quale anche le piazze non sono altro che slarghi delle strade. Tale spazio pubblico comune che si dirama in tutta la città e in cui si presentano tutti gli edifici appare come il frutto di un compromesso fra l'ordinamento pubblico e gli interessi dei privati, reso esplicito e operante dalla minuziosa produzione statutaria dell'età comunale. La complessità è rappresentata dalla molteplicità dei centri, in parte contrapposti, in parte sovrapposti, determinata dalla molteplicità dei poteri e delle forze che sono presenti e operanti nella città e ne condizionano l'articolazione interna. La concentrazione, infatti, appare strettamente collegata con la complessità e fa parte della natura stessa della città come somma di gruppi privilegiati in grado di organizzarsi localmente con proprie regole di vita e precise prerogative che si traducono fisicamente nell'organizzazione di quartiere o di clan aristocratico. La morfologia urbana, in conclusione, è lo specchio fedele delle strutture sociali, sicché del tutto impossibile è separare l'una dalle altre, con il rischio di perdere di vista la natura precipua di quella che abbiamo definito «urbanistica medievale». Soltanto per ragioni espositive prenderemo qui in esame gli aspetti più precisamente morfologici, rimandando alla prossima sezione l'analisi della composizione sociale.


1. Una preliminare distinzione fra città, che tradizionalmente viene fatta in sede di storia dell'urbanistica, è quella basata sulla loro origine: le città si possono cioè distinguere in grandi categorie, considerando i motivi e le funzioni che hanno presieduto alla loro fondazione. Possiamo così avere città di origine romana, città di formazione e città di creazione: nel primo caso assistiamo alla trasformazione della città antica, rispetto alla quale il perimetro della città medievale può essere conservato, ridotto o ampliato; nel secondo si verifica lo sviluppo di un borgo originariamente non cittadino per successivi incrementi attorno a un centro, in genere commerciale; nel terzo l'insediamento nasce per deliberata volontà di un'autorità che ne stabilisce la creazione. Mentre le città di formazione sono tipiche delle aree commerciali dell'Europa settentrionale, in Italia, come in tutto il mondo mediterraneo, prevale di gran lunga la città di origine romana e abbastanza rare sono le città di creazione che rivestano il carattere di civitates vere e proprie e non si limitino a essere semplici lottizzazioni territoriali come nel caso delle villenove o dei borghi franchi creati dai comuni dell'Italia settentrionale. La più nota di queste è senz'altro Alessandria, fondata nel 1168 dalla Lega lombarda a spese di quattro insediamenti minori preesistenti: solo il riconoscimento come sede vescovile ne garantisce però il carattere «cittadino» a pieno diritto (doc. 2). Altre città, come la nuova Lodi, furono invece «rifondate» in seguito a cause belliche, ma in questi casi si devono piuttosto considerare spostamenti di insediamenti precedenti che non vere e proprie città di fondazione, anche se gli atti che le riguardano rivestono un notevole interesse per ciò che concerne gli aspetti di pianificazione. Di norma mancano infatti nelle fonti medievali indicazioni precise e diffuse sul modo di «costruire città» e di conseguenza su quella che poteva essere la concezione generale della pianificazione urbanistica, sicché attestazioni di questo genere rivestono una particolare importanza, come ugualmente importanti possono rivelarsi – benché appaia più difficile distinguere la pratica dal luogo letterario – le descrizioni delle fondazioni mitiche di città, come nel caso di Ravenna (doc. 3).

La «città nuova» è comunque la riproduzione di un modello urbano compiutamente formato all' epoca della fondazione e proprio il caso di Lodi aiuta a evidenziare gli elementi compositivi ormai consolidati (doc. 4): il Barbarossa nel 1158 concede infatti ai Lodigiani «quanto è sufficiente per costruire la città e il suburbio», «mura, fossati e altre fortificazioni», «ponti», «vie», «pascoli», «strada comune attraverso la nuova città di Lodi». Cinta muraria, sobborghi, ponti e strade per la circolazione interna ed esterna, area circostante che garantisca il vettovagliamento sono dunque le caratteristiche fondamentali della città del XII secolo, di quella di creazione, come in questo caso, ma, prima ancora, di quella di origine romana, giunta a questo punto della sua trasformazione.

La città di origine romana, come abbiamo detto, è infatti il tipo più diffuso in Italia: in genere si presenta con un reticolo stradale ortogonale, formato dall'incontro del cardo con il decumano e delle vie parallele a essi, con una piazza principale (forum) e con una serie di monumenti pubblici, quali l'anfiteatro, le terme e le basiliche; il suo perimetro era circondato dalla cerchia di mura nel quale si aprivano le porte in comunicazione con l'esterno. Nel trapasso fra l'età romana e l'alto Medioevo quasi tutte le città subirono una decadenza e una contrazione abitativa: i monumenti pubblici vanno in rovina e non vengono più restaurati e a essi si attinge per recuperare materiale edilizio, oppure sono riusati per altre esigenze e completamente trasformati; la rete viaria intera subisce alterazioni di percorso in seguito a crolli delle abitazioni e al moltiplicarsi degli spazi coltivati all'interno delle mura; la cinta stessa va in rovina e viene tamponata alla meno peggio.

Una netta ripresa si osserva invece sul finire del millennio e nel secolo successivo, in seguito alla generale ripresa demografica e al crescente moto di urbanizzazione: il recinto originario diventa insufficiente a contenere la popolazione in crescita e nuovi insediamenti sorgono a ridosso delle mura, lungo le direttive stradali; di lì a poco il nuovo ente comunale provvederà alla costruzione di una nuova cerchia, ben presto seguita, in molti casi, da una terza nel XIII secolo, mentre all'interno si moltiplicano le nuove costruzioni, civili e religiose, conferendo alla città, com'è stato scritto, l'immagine di un grande cantiere. Lo sviluppo urbano che si realizza nel corso di questi pochi secoli – grosso modo fino alla crisi del Trecento – è diffuso e impressionante: città come Firenze e Genova passano da un'estensione di 20 e 30 ettari a 55 e a 53 nel XII secolo e a ben 630 e 110 ettari alla fine del Medioevo; la pianta muta profondamente, trasformandosi dall'impianto originario ortogonale a quello, tipicamente medievale, radiocentrico.

II problema del piano urbano è da tempo allo studio degli storici dell'urbanistica che hanno, di volta in volta, voluto vederci l'influsso del simbolismo religioso (sostituzione dell'impianto ortogonale con l'impianto a croce di chiese), la suggestione radiocentrica della città araba, lo sviluppo «spontaneo» e irregolare dell'edilizia priva di pianificazione, l'iniziativa politica nell'ordinamento «regolare». Difficile assumere criteri interpretativi rigidi per l'estrema varietà delle forme; l'unica possibilità, al massimo, è quella proposta da Luigi Piccinato di catalogare semplicemente i vari «tipi» di pianta in relazione con la morfologia del suolo. II tipo più semplice ed elementare è la formazione lineare generata da una strada che si slarga a piazza: questo modello si può complicare a seconda del numero di strade parallele alla principale; analogo al primo è il tipo generato da due assi normali, la cui iterazione porta alla «scacchiera» vera e propria: in questo caso le complicazioni possono essere date dall'inserimento di una dominante (palazzo, cattedrale, ecc.) che polarizza attorno a sé il piano. Diverso appare invece lo schema radiocentrico, sviluppatosi il più delle volte come rete di collegamento fra direttrici uscenti dalle porte attorno a cui si sono sviluppati i borghi; in questo caso il piano può presentarsi ad avvolgimento, nelle varianti di uno solo o di due anelli concentrici, o a ventaglio, anche in questo tipo complicabile con la presenza di un centro dominante originario. In ogni caso, conclude Piccinato, apparenti regolarità o irregolarità non possono essere di per sé considerate indicazioni certe del maggiore o minore peso dell'intervento di pianificazione, poiché anche senza piani determinati la pianta è sempre frutto della volontà dei cittadini come elaborazione anonima e collettiva.

Il che non significa, ovviamente, «spontaneismo compositivo»: se pure ignoriamo come la collettività si comportasse nei confronti dell'edilizia urbana nell'alto Medioevo (anche se non è mancato chi ha parlato di «urbanistica» dei vescovi), da quando in città funziona un ente politico-amministrativo espresso dai cittadini è sua cura abituale intervenire sul piano di fabbricazione con norme precise e particolareggiate, come avremo modo di osservare più avanti. Ma, a parte la normativa specifica, l'attenzione dei contemporanei non sembra molto interessata, come lo saranno invece più tardi i rinascimentali, ai problemi di pianta: al massimo c'è in loro un riferimento descrittivo collegato con la forma delle mura o con la loro ampiezza. Alquanto eccezionale appare invece la posizione di Bonvesin da la Riva che nelle sue lodi di Milano non solo ha un preciso richiamo all'impianto radiocentrico della sua città, ma, secondo un simbolismo corrente ai suoi tempi, è portato a interpretare tale rotunditas come segno della perfezione. I cronisti, in genere, preferiscono sottolineare invece i singoli aspetti compositivi o, tutt'al più, descrivere l'immagine «verticale» che di sé presenta la città al viaggiatore che si avvicina, come nei due casi di Pavia e di Genova (doc. 5/b, c): ciò che colpisce è l'altezza dei campanili e delle torri, che consente di scoprirla già da lontano per la sua elevazione nei confronti del paesaggio circostante.

Quando poi passano ai particolari compositivi, il loro interesse va, in genere, alla cerchia delle mura, al sistema viario e ai singoli monumenti. Per la cerchia muraria, oltre a quanto già abbiamo preso in considerazione in precedenza, a proposito delle funzioni difensive, può riuscire interessante leggere la descrizione di Opicino de Canistris relativa al triplice recinto e alla forma delle porte di Pavia, non molto dissimile da quella fatta da Bonvesin per Milano, in cui l'autore si soffermava in modo particolare sull'ampio fossato che circondava la città (doc. 6). II moltiplicarsi delle cerchie nell'arco dei secoli che vanno dall'XI al XIV sta a testimoniare gli incrementi urbanistici che tendono a inglobare via via i sobborghi cresciuti a ridosso delle mura: al sopraggiungere della crisi demografica, nel Trecento avanzato, la città si contrae nei suoi abitanti ma le strutture fisiche create nel momento di crescita si mantengono (o decadono) lasciando al loro interno spazi vuoti: significativa, a questa proposito, la testimonianza, a metà del Quattrocento, di un cronista vicentino che ricorda i sobborghi popolosi di un secolo e mezzo prima, di cui ai suoi tempi non rimangono che le tracce degli antichi fossati e delle mura (doc. 7).


2. Se, più di ogni altra struttura, la costruzione delle cerchie denuncia la crescita estensiva della città, il complicarsi del reticolo stradale e l'attenzione rivolta alla sua articolazione sono un chiaro segno dell'intensificarsi delle attività in esso svolte. È ormai quasi un luogo comune parlare della tortuosità dei percorsi urbani medievali, dell'abituale congestione delle strade della città preindustriale, strette e piene di gente che vi esercita ogni forma di commercio, attraversate da animali in libertà che vi svolgono anche la funzione di spazzini: pagine pittoresche che, senza dubbio, contengono una parte di vero, ma che sembrano essere contraddette dalla ricchissima normativa urbanistica elaborata dalle autorità comunali di quasi tutte le città italiane, intesa a evitare proprio gli aspetti di disordine e di incuria.

È generalmente nei primi decenni del Duecento che il comune affronta con consapevolezza i problemi urbanistici più elementari, varando iniziative di interesse comune che comportano una preliminare conoscenza dei problemi e un'esplicita volontà politica di risolverli; la lastricatura generale delle strade, per quanto possa apparire un intervento limitato, assume in questa prospettiva il significato di una reale pianificazione urbanistica che comporta il ricorso a personale specializzato e implica la direzione di maestranze alle dipendenze dell'autorità cittadina; non si dimentichi poi la complessità dei problemi di igiene edilizia connessi con tale intervento, rappresentati dalla sistemazione dei canali di scolo, del loro convogliamento nel sistema fognario, talvolta progettato ex novo proprio in occasione della lastricatura o dell'apertura di nuove strade. Prima ancora che nell'edificazione dei palazzi di rappresentanza, l'attività progettuale e pianificatrice del comune cittadino italiano si esplica proprio nella realizzazione delle infrastrutture urbane, quali le reti stradali e fognarie, di cui i cronisti come Opicino andavano giustamente fieri (doc. 8).

Strade, piazze e fogne rappresentano infatti lo spazio pubblico comune, complesso e unitario, che si dirama per tutta la città, soggetto a gradazioni d'intervento da parte dell'autorità, connesso con una chiara distinzione giuridica delle pertinenze: esistono cioè strade pubbliche, strade vicinali e strade private la cui manutenzione spetta a tutti o ai singoli gruppi, e a tale attività sovrintendono dei funzionari specificamente nominati dall'autorità comunale. Ad Alba, ad esempio, il podestà entro quindici giorni dall'entrata in carica è tenuto a eleggere due massari che sovrintendano alla selciatura delle strade pubbliche, così da garantire la circolazione dei carri e dei carretti (doc. 9): eloquente accenno che ci consente, di passaggio, di confutare l'opinione generalmente diffusa che la circolazione urbana nelle città medievali sia stata esclusivamente pedonale; anche in questo caso occorre infatti distinguere le strade a seconda delle categorie cui appartengono. Altri due funzionari, sempre ad Alba, vengono poi preposti dal podestà alla sovrintendenza delle fortificazioni e dei lavori pubblici: per la lastricatura delle strade l'obbligo ricade sui proprietari delle case che a esse hanno accesso, con materiale fornito dal comune; per il trasporto dei materiali, tanto per le mura quanto per ogni altro lavoro pubblico, tutti i possessori di animali da soma della città vengono precettati per un dato periodo di tempo.

Il principio della responsabilità della porzione di strada davanti alla propria abitazione non si limitava alla manutenzione del selciato ma, come è specificato negli statuti di Bologna (doc. 10), riguardava anche la pulizia ordinaria del suolo pubblico, con la rimozione di fango, calcinacci, vinacce e ogni altro rifiuto: soltanto i tratti di strada in cui non sorgono abitazioni sono ripuliti a spese del comune. La preoccupazione della pulizia delle strade, prima ancora che a prevedere l'intervento di rimozione, aveva portato il legislatore a prevenire le cause più normali di deturpamento del suolo pubblico, proibendo con precise norme di igiene edilizia lo scolo degli sgocciolatoi o di altri collettori di detriti sulla strada e comminando salate multe a chi imbrattasse il suolo rovesciandovi ogni sorta di rifiuti; ugualmente proibito – o, in ogni caso, soggetto a precise restrizioni – era il tenere maiali in città e lasciarli liberi per le strade.

Altre numerose norme relative alla viabilità si riscontrano negli statuti delle città italiane, oltre a quelle che prevedono la manutenzione o ne proibiscono il deturpamento: a Bologna, ad esempio (doc. 11), si fa divieto ai cittadini di ostruire il passaggio sotto i portici delle case con materiali che impediscano il transito pedonale, mentre, per quanto riguarda le strade pubbliche, non solo viene proibita la costruzione di «ponti» o passatoie che le attraversino, collegando casa con casa, ma si ordina la rimozione di quelli già esistenti che, precedentemente all'emanazione di tale norma, dovevano essere alquanto numerosi. Si ha netta l'impressione, in definitiva, che, se per un verso la crescita spontanea e per certi aspetti caotica della città italiana tenda a creare un paesaggio urbano disordinato, frutto di interventi privati e occasionali, per un altro verso, almeno nella matura età comunale, gli sforzi per una razionalizzazione dello sviluppo urbanistico da parte delle autorità politico-amministrative siano notevoli.

Né l'intervento urbanistico comunale pare limitarsi alla semplice conservazione e al buon funzionamento delle strutture esistenti, ma in molti casi opera a un livello di vera e propria pianificazione territoriale sia per quanto riguarda la normativa sull'edilizia privata, sia per quanto riguarda i lavori pubblici. Numerose e particolareggiate appaiono infatti negli ordinati dei consigli comunali le delibere relative a interventi sul tessuto urbano per ciò che concerne la costruzione di nuove piazze o strade e, per alcune città, in piena espansione nel Duecento come Firenze, è possibile – ed è stato fatto da Sznura – ricostruire passo passo i momenti della crescita analizzando le decisioni prese dal comune a proposito degli espropri, delle acquisizioni e degli appalti.

Nel funzionamento del meccanismo dell'intervento pubblico è interessante rilevare, proprio per Firenze, come la prassi consueta segua un iter particolare: a esporre le necessità dell'intervento compaiono infatti le rappresentanze di gruppi cittadini, quali possono essere i capi di un'arte o i capomastri di un'«opera» di interesse collettivo, come la costruzione e la manutenzione di una chiesa cittadina; questi presentano la loro istanza alle autorità motivandone le esigenze pratiche e prospettando le soluzioni urbanistiche; il consiglio, messa ai voti la proposta, decide e stabilisce l'esecuzione dei lavori, eleggendo un certo numero di incaricati con il compito di verificare le modalità dell'intervento, stimare gli eventuali beni da espropriare, amministrare i fondi stanziati per la realizzazione dell'opera (doc. 12).

Accanto alle motivazioni di ordine pratico, qualche volta emergono delle esigenze di carattere estetico che denunciano uno spiccato «gusto urbanistico» (doc. 13): nel 1339, infatti, i rappresentanti delle due «opere» di s. Giovanni Battista e di S. Reparata di Firenze fanno rilevare che la differenza di quote fra le strade d'accesso alla piazza in cui sorgono le due chiese compromette l'effetto estetico dei due monumenti, che risultano nascosti, e richiedono al consiglio l'abbassamento delle strade in modo da conferire il giusto rilievo alla piazza; i lavori avverranno a spese delle due «opere», sotto il controllo degli ufficiali comunali.


3. Questo tipo di partecipazione fra gruppi di cittadini e autorità comunale negli interventi urbanistici, che appare caratteristico della città italiana del pieno Medioevo, ci consente di sviluppare il discorso passando dalla pianificazione e manutenzione delle infrastrutture urbane (strade, servizi, ecc.) alla vera e propria progettazione degli edifici di interesse pubblico.

Al venir meno dell'organizzazione municipale romana, i monumenti pubblici antichi, come abbiamo visto, decadono e vengono riusati in tutto o in parte; soltanto per le mura, elemento di difesa e di individuazione urbana, si conservano attenzioni speciali: contribuzioni obbligatorie della cittadinanza in età longobardo-franca, assunzione del loro controllo da parte del vescovo nel x secolo sono spie di una non tramontata attitudine all'intervento sulle strutture di pubblica utilità da parte della collettività cittadina, sotto qualsiasi tipo di coordinamento politico. Ma, specialmente attorno all'XI secolo, nel periodo precomunale di più matura presa di coscienza da parte dei cittadini nei confronti della città, un monumento sembra diventare privilegiato dall'intervento collettivo: si tratta della chiesa «matrice», la cattedrale, in cui spesso è conservato il corpo del santo patrono; con tale chiesa e con tale santo la città si identifica e trova un elemento di rafforzamento della propria unità. Eloquentemente illustra questa tensione collettiva una cronaca modenese che narra dell'edificazione della cattedrale fra il 1099 e il 1106 (doc. 14): unanime appare il desiderio di ridare al santo patrono una degna sede in sostituzione della chiesa preesistente ormai pregiudicata nelle sue stesse fondamenta; unanime è la ricerca di un valido capomastro; unanime appare l'esecuzione, sotto la sua direzione, dei lavori di fondazione, di edificazione e di abbellimento.

Dall'XI secolo in poi le città medievali italiane – e più in generale quelle europee – diventano dei grandi cantieri in cui crescono le chiese e i palazzi pubblici, determinando in molti casi delle vere trasformazioni nel tessuto urbano, al punto che non è mancato chi, come Wolfgang Braunfels, ha voluto vedere nel capomastro della cattedrale il principale responsabile della pianificazione urbanistica. Atteggiamento certo eccessivo, dal momento che, come abbiamo rilevato, il controllo esercitato dalle varie componenti sociali, d'intesa con l'autorità pubblica, sugli interventi edilizi appare costante, ma atteggiamento che senza dubbio serve a sottolineare l'importanza assunta dagli architetti in quel periodo. La formazione dell'«opera» della chiesa in costruzione, individuabile come ente, attivo con buona dose di autonomia, è fenomeno diffuso ovunque e il prestigio raggiunto dal suo responsabile, il magister, è ampiamente documentato dagli impegni ufficiali con lui contratti da comuni quali Siena e Pisa (doc. 15).

Meno documentata, ma non meno importante nella composizione architettonica della città, appare la costruzione della sede dell'autorità comunale che, a partire dalla metà del XIII secolo, comincia a possedere edifici propri in grado di ospitare funzionari e uffici burocratici che in precedenza svolgevano la propria attività in modo itinerante, nelle chiese o presso le abitazioni dei privati. I palazzi di carattere pubblico vanno moltiplicandosi con la maggiore articolazione della vita politica della città (palazzo del podestà, del capitano del popolo, ecc.), talvolta concentrandosi, come nel caso di Milano descritto da Bonvesin da la Riva (doc. 16), in un unico complesso direzionale, la curia comunis, formata dal palazzo comunale, dal palazzo del podestà e da una torre, il tutto realizzato negli anni che vanno dal1228 aI 1272.


4. Mura, tessuto stradale, cattedrale e palazzi dell'autorità comunale rappresentano nel loro complesso le strutture pubbliche della morfologia della città, all'interno della quale si sviluppa l'edilizia privata; ma sarebbe un errore voler considerare troppo nettamente distinte queste due componenti della città, poiché, come la partecipazione dei singoli o dei gruppi alla manutenzione e alla progettazione delle opere pubbliche è un fatto consueto, così l'attività edilizia dei privati, almeno in età comunale, non rappresenta mai un fatto personale e arbitrario, ma rientra in una normativa in parte espressa e codificata dagli statuti, in parte consuetudinaria, non scritta ma non per questo meno rispettata, dalla cui osservanza nasce quella che un architetto come Le Corbusier ha definito «coerenza di stile della città medievale», in grado di fornire, nonostante l'apparente disordine, un'immagine di continuità e di omogeneità di composizione.

Le norme relative all'edilizia privata – anche se in genere sembrano ancora mancare organi amministrativi permanenti paragonabili al Consiglio d'ornato o strumenti del genere di un Piano regolatore - sono numerosissime e varie e si può affermare che vadano dalle più elementari misure di sicurezza ai più raffinati interventi stilistici.

Quasi ovunque – come nel caso di Alba (doc. 17) – il proprietario che intenda edificare una casa presso la pubblica via è tenuto ad avvertire le autorità competenti affinché provvedano a verificare che ciò avvenga senza pregiudizio del suolo pubblico e dei diritti comunali; dappertutto è poi fatto divieto di utilizzare materiali edilizi troppo facilmente combustibili, quali la paglia o le fascine di legname, per evitare il pericolo, sempre ricorrente, di incendi. I danni degli incendi, osserviamo incidentalmente, nelle città medievali che, nonostante tutti i divieti, avevano case in gran parte di struttura lignea (balconate, portici, ecc.) dovevano essere frequenti e molto ingenti, anche perché, al fine di arrestare le fiamme, spesso si era costretti a circoscriverle abbattendo altri edifici non ancora attaccati dal fuoco (doc. 18). Anche sui materiali da costruzione esiste spesso una normativa specifica: ad Alba, ad esempio (doc. 19), i fornaciari erano tenuti a fabbricare mattoni e tegole standard, secondo un modello preciso il cui disegno era conservato nei registri comunali; sul loro commercio poi, il comune esercitava un controllo rigido, vietando ogni speculazione, imponendo il prezzo e obbligando i fabbricanti a fornire il necessario per la manutenzione delle opere pubbliche; le stesse norme vigevano per la produzione di calce.

Veri e propri interventi a carattere di omogeneità estetica si riscontrano nella normativa di Bologna e, in particolare, di Siena (doc. 20): a Bologna infatti tutti i proprietari di case sono tenuti a provvedere all'edificazione di portici in facciata – norma non solo stilistica, ma anche di carattere pratico che consente la creazione di comode strade porticate –, mentre a Siena, alla fine del Duecento, si prendono precisi provvedimenti di pianificazione urbanistica nei confronti dell'edilizia privata prospiciente il «campo del mercato», cioè piazza del Campo, facendo divieto di erigere sulle facciate ballatoi o altre sporgenze e imponendo le finestre «a colonnelli», cioè bifore o trifore. In altri casi – e ben prima che si elabori una precisa norma statutaria – elementari regole di reciproco rispetto nel costruire in città abitazioni private venivano adottate dai proprietari contermini, magari con clausole presenti nell'atto di vendita di immobili, come nel caso di due abitanti di Vercelli che nel 1178 si impegnano ad osservare alcune disposizioni di igiene edilizia, fornendo una sommaria descrizione delle loro case (doc. 21).

Abitazioni semplici, con poche finestre, ballatoi verso la strada, aderenti le une alle altre, caratterizzano un certo tipo di edilizia urbana, mescolata alla quale ne compare un'altra, di tipo ben diverso, in quanto legata alla diversa estrazione sociale dei suoi ideatori e fruitori, proprietari di vasti spazi urbani, in grado di imporre ai vicini più umili rispetto e protezione. II simbolo visibile e lo strumento dell'esercizio di tale potere è senza dubbio la torre urbana, robusta costruzione in muratura che si alza al di sopra dei tetti delle altre case e che, traducendo in forme edilizie il permanente conflitto dei gruppi eminenti cittadini, si oppone alle torri delle famiglie rivali in uno schema iterativo che moltiplica la fortezza privata per il numero dei cittadini potenti. A questo spontaneismo aggressivo dell'edilizia aristocratica, a un tempo causa ed effetto di violenza civile, tende a opporsi l'autorità cittadina, sia essa vescovile o comunale, cercando, impotente ad arginare il fenomeno, di regolarlo almeno con una normativa che stabilisca l'altezza delle torri e impedisca l'allestimento di esse a scopo dichiaratamente offensivo. Uno dei più antichi esempi di tale legislazione è rappresentato dal cosiddetto «lodo delle torri» (doc. 22) con il quale, sul finire dell'XI secolo, il vescovo di Pisa regolamenta l'altezza delle torri, indicandone alcune come riferimento e stabilendo in ogni caso che esse non debbano superare l'altezza massima di 36 braccia, vale a dire di circa 21 metri.

Connotato caratteristico e a lungo conservato del volto della città medievale italiana, la torre, un tempo interpretata come importazione dell'aristocrazia rurale, detentrice di castelli nel contado e spesso poi trasferita in città, e oggi oggetto di un capovolgimento di ruolo da parte di chi, come Aldo A. Settia, vede piuttosto in essa un modello originariamente urbano solo più tardi esportato fuori della città. Certamente, come vedremo meglio nella prossima sezione, la presenza di forti nuclei di aristocrazia cittadina, organizzati in consorzi familiari, spesso ma non necessariamente anche signori di castelli nel contado, precede l'avvento del comune e il loro rilievo sociale si può esprimere con un edificio fortificato in grado di offrire ai suoi membri difesa e possibilità di offesa contro i rivali, ma la torre all'interno del tessuto urbano non rappresenta che un elemento, anche se il più prestigioso, di un modo di comporre lo spazio cittadino da parte della classe dominante; come è stato analizzato da Heers per il periodo successivo, ciò che colpisce della residenza del «clan nobiliare» è la grande densità di case, serrate attorno a edifici comuni e comunicanti fra loro per un groviglio di stradine, cortili e passaggi coperti; esse si aprivano sulle vie principali o su una piccola piazza dove si trovava la chiesa gentilizia e la loggia di riunione della consorteria, tutto attorno sorgevano magazzini, stalle, abitazioni minori e molto spesso erano presenti aree verdi, giardini e orti (doc. 23). Questa originalità edilizia delle residenze nobiliari consentiva ai concittadini di individuarle con precisione, indicandole come «le case dei tali», anche se non sorgevano disgiunte da una realtà sociale di livello ben diverso, ma apparivano anzi inserite in un contesto eterogeneo, accanto a botteghe, a case di artigiani o ad abitazioni di clienti e familiari di rango molto modesto – come nel caso astigiano (doc. 24) della torre dei Lorenzi, circondata dalle botteghe del mercato del Santo –, evitando, come sottolinea Heers, «ogni vera segregazione sociale».

Non esiste, in altre parole, nella città medievale italiana, qualcosa di analogo al moderno concetto di zoning – non esistono cioè, di massima, «zone residenziali», «zone operaie», «zone commerciali» rigidamente demarcate – poiché ogni articolazione urbana si presenta mista, anche se ben distinta dalle altre e individuabile topograficamente dalla fisionomia che è andata assumendo la popolazione di essa, grazie alla consuetudine all' adiacenza e alla convivenza dei gruppi familiari che vi risiedono. La vicinia urbana appare così l'elemento principale del tessuto connettivo urbano, gravitante sulla chiesa parrocchiale o sulla porta cittadina o attorno a strutture anche molto più elementari, come una piazza o un pozzo di uso comune.

Per tutte le esigenze collettive la città ha sempre poggiato su questo tipo di organizzazione di base: fin dai tempi più remoti i compiti di difesa sono stati suddivisi territorialmente per turni di guardia, molto spesso coincidenti con le porte (le hore o guaite) e fino all'età comunale più recente le circoscrizioni territoriali sono servite di base per il reclutamento militare e per le riscossioni fiscali, assumendo, a seconda delle città, nomi diversi (quartieri, sestieri, contrade, conestagia, ecc.). Lo sviluppo economico di attività commerciali e artigianali all'interno di tali circoscrizioni ne ha poi favorito una precoce maturazione politica che, connessa con le originarie funzioni militari, ha conservato l'attitudine all'uso delle armi trasformandole in centri di potere popolare, come meglio vedremo nella prossima sezione. Molto spesso proprio il coordinamento fra le singole società di circoscrizione ha inciso profondamente nella trasformazione dell'articolazione amministrativo-topografica cittadina, suddividendo in quartieri anche le città che in origine non li conoscevano col chiaro intento di fare – come ha sottolineato Pini – della territorialità urbana la base costituzionale del comune di popolo (doc. 25).

Ma prima ancora che di formazione politica, la vicinia conserva il carattere di agglomerato socio-territoriale il cui buon funzionamento garantisce la sicurezza della vita quotidiana dei suoi abitanti; priva, proprio per questo suo carattere ordinario, di una documentazione scritta che sia giunta fino a noi, compare occasionalmente negli statuti comunali dove le più antiche consuetudini che soprintendevano alla sua esistenza sono talvolta confluite. Illuminante appare a questo proposito una rubrica degli statuti di Bologna relativa alla manutenzione dei pozzi (doc. 26): da essa apprendiamo infatti che alla vicinia spettava la manutenzione dei pozzi vicinali esistenti e la possibilità di scavarne dei nuovi e che le decisioni in proposito venivano prese dai rappresentanti della vicinia che avevano la facoltà di eleggere a loro volta delle persone incaricate di far eseguire i lavori e sorvegliare l'applicazione delle norme di igiene pubblica relative al rifornimento idrico. Gran parte dei servizi locali doveva infatti essere demandata ai rappresentanti della circoscrizione che agivano in tal modo da tramite fra i vicini e l'autorità cittadina.

Dal punto di vista morfologico, la città italiana si presenta dunque come specchio fedele delle sue strutture sociali, in forme apparentemente contraddittorie ma fondamentalmente omogenee. Somma di vicinie popolari che ospitano abitazione e bottega di artigiani e commercianti ma anche grandi residenze nobiliari, abitate da clan familiari e dai loro clienti, somma cioè di unità locali in gran parte autosufficienti per ciò che concerne le attività quotidiane, la città offre però degli spazi sovracircoscrizionali comuni a tutti i cives, in grado di far convergere e raccordare le diverse articolazioni. Realizzazione e manutenzione di palazzi pubblici, cattedrali e chiese, ma soprattutto di piazze, strade e servizi comunali, regolate da una precisa normativa, rappresentano il deliberato sforzo dell'autorità cittadina di svolgere una politica che non è soltanto di contenimento degli sviluppi centrifughi delle autonomie locali, bensì, dove riesce, è già un intervento di pianificazione. Pianificazione non certo facile, anche per il clima di disordine civile endemico, e non sempre chiaramente cosciente, ma che, in definitiva, ha lasciato una traccia visibile nella fondamentale omogeneità con cui si presentano oggi i resti delle nostre città medievali.

Nota bibliografica

1. Per quanto riguarda l'impostazione generale del problema cfr. nella nota bibliografica della prefazione le opere citate di Lavedan (recentemente aggiornata: P. LAVEDAN – J. HUGUENEY, L'urbanisme au moyen âge, Genève, Droz, 1974), Benevolo, Piccinato, Guidoni e soprattutto i due Convegni di Lucca, La storiografia urbanistica, Lucca, CISCU, 1976 e Le città di fondazione, Padova, Marsilio, 1978; a ciò si aggiungano P. PIEROTTI, Urbanistica: storia e prassi, Firenze, Centro Di, 1972; B. ZEVI, La metodologia nella storia dell'urbanistica, in Atti del VII Convegno nazionale di storia dell'architettura, Palermo, 1956; H. BERNDT – A. LORENZER – K. HORN, Ideologia dell'architettura, Bari, Laterza, 1979; E. GUIDONI, Arte e urbanistica in Toscana (1000-1315), Roma, Bulzoni, 1970; F. BOUDON, Tissu urbain et architecture: l'analyse parcellaire comme base de l'histoire distrectuale, in «Annales E.S.C.», XXX, 1975; sull'«immagine» della città medievale cfr. C. FRUGONI, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1983; meno convincente l'interpretazione di J. LE GOFF, L'immaginario urbano nell'Italia medioevale, in Annali della Storia d'Italia, V: Il paesaggio, Torino, Einaudi, 1982.


2. Utile strumento per un approccio archeologico alle strutture urbane è la raccolta di saggi di M. W. BARLEY (a cura di), European Towns: their Archaeology and Early History, London – New York – San Francisco, Academic Press, 1977 (per le città italiane cfr. in particolare T. MANNONI – E. POLEGGI, The Condition and Study of Historic Town Centre in North Italy); per quanto riguarda il materiale da costruzione, F. RODOLICO, Le pietre delle città d'Italia, Firenze, Le Monnier, 1964; sui problemi del centro storico: Atti del convegno di studi sul centro storico di Pavia (4-5 luglio 1964), Pavia, Fusi, 1968; Contributi alla storia urbanistica di Bologna dalla preistoria al Medioevo, Bologna, Deputazione di storia patria, 1966 (sul Medioevo cfr. il contributo di G. FASOLI, Momenti di storia bolognese nell'alto Medioevo); F. BOCCHI, Note di urbanistica ferrarese nell'alto Medioevo, in «Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria», serie III, XVIII, 1974; G. ROSSETTI, Archeologia, storia, progetto e F. REDI, Analisi archeologica e recupero funzionale del centro storico, entrambi in «Parametro», 1981, 96 (l'intero numero è dedicato all'urbanistica pisana); P. HUDSON, Archeologia urbana e programmazione della ricerca: l'esempio di Pavia, Firenze, All'insegna del Giglio, 1981; articoli relativi all'archeologia urbana e in genere alla storia dell'urbanistica compaiono sulle riviste «Archeologia medievale» (Firenze) e «Storia della città» (Roma).


3. Sull'edilizia pubblica cfr. A. HAUPT, Architettura dei palazzi dell'Italia settentrionale e della Toscana dal sec. XIII al XVII, Bergamo, 1931 (nuova ed. Milano – Roma, Bestretti e Tumminelli, s.d.); W. BRAUNFELS, Mittelalterliche Stadtbaukunst in der Toskana, Berlin, Mann, 1959; N. RODOLICO – G. MARCHINI, I palazzi del popolo nei comuni italiani del Medioevo, Milano, Electa, 1962; A. M. ROMANINI, Le arti figurative nell'età dei comuni e F. REGGIORI, Aspetti urbanistici e architettonici della civiltà comunale, entrambi in C. D. FONSECA (a cura di), I problemi della civiltà comunale, Bergamo, Cariplo, 1971; vedi anche i contributi di R. S. Lopez e di P. Pierotti negli Atti del convegno Les constructions civiles d'intérêt public dans les villes d'Europe au Moyen Age, Bruxelles, Pro Civitate, 1971.


4. Sull'organizzazione e la regolamentazione urbanistica delle singole città medievali (manca un'opera complessiva): N. OTTOKAR, Criteri d'ordine, di regolarità e di organizzazione nell'urbanistica e in genere nella vita fiorentina dei secoli XIII-XIV, in Studi comunali e fiorentini, Firenze, La Nuova ltalia, 1948; D. CORSI (a cura di), Statuti urbanistici medievali di Lucca, Venezia, Neri Pozza, 1960; P. PIEROTTI, Lucca, Edilizia, urbanistica medievale, Milano, Comunità, 1965; G. PAMPALONI (a cura di), Firenze al tempo di Dante. Documenti sull'urbanistica fiorentina, Roma, Archivi di Stato, 1973; P. TAFEL, Strutture urbane e vita quotidiana, in Ivrea nel secolo XIV, in «Nuova rivista storica», LVIII, 1974; F. PANERO, Gli statuti urbanistici medievali di Alba, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici e artistici della provincia di Cuneo», 1975, 72; F. SZNURA, L'espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze, La Nuova Italia, 1975; D. BALESTRACCI – G. PICCINNI, Siena nel Trecento. Aspetto urbano e strutture edilizie, Firenze, CLUSF, 1977; G. PETTI BALBI, Genova medievale vista dai contemporanei, Genova, SAGEP, 1978; A. A. SETTIA, Sviluppo e struttura di un borgo medievale: Casale Monferrato, in Gli statuti di Casale Monferrato del XIV secolo, Casale Monferrato, Lions Club, 1978; L. GROSSI BIANCHI – E. POLEGGI, Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova, SAGEP, 1979; F. LO MASTRO, Spazio urbano e potere politico a Vicenza nel XIII secolo, Vicenza, Accademia Olimpica, 1981. Sulle abitazioni private, le torri e, in genere, i rapporti fra edilizia e struttura sociale cittadina: C. GOZZADINI, Delle torri gentilizie di Bologna e delle famiglie alle quali appartengono, Bologna, 1875 (rist. anast. 1956); P. SANTINI, Società delle torri in Firenze, in «Archivio storico italiano», serie IV, XX, 1887; C. LUPI, La casa pisana e i suoi annessi, in «Archivio storico italiano», serie V, XXVII-XXXII, 1901-903; A. SCHIAPARELLI, La casa fiorentina e i suoi arredi nel sec. XIV e XV, Firenze, Sansoni, 1908; F. NICCOLAI, I consorzi nobiliari e il comune nell'alta e media Italia, Bologna, Zanichelli, 1940; A. SAPORI, Case e botteghe a Firenze nel Trecento, in Studi di storia economica (secc. XIII, XIV, XV), Firenze, Sansoni, 1955-67, 3 voll.; F. REDI, Dalla torre al palazzo: forme abitative magnatizie e spazio urbano a Pisa dall'XI al XV secolo, in Atti del III Convegno sui ceti dirigenti nella Toscana tardo-comunale (Firenze, 5-7 dicembre 1980); G. ROSSETTI – G. GARZELLA – F. REDI – C. FRUGONI - M. CARMASSI, Un palazzo una città. Il palazzo Lanfranchi in Pisa, Pisa, Pacini, 1980; G. GULLINO, Forme abitative a Vercelli, Vercelli, Società storica vercellese, 1980; A. A. SETTIA, L'esportazione di un modello urbano: torri e case-forti nelle campagne del Nord Italia, in «Società e storia», 1981, 12. Sulle articolazioni urbane e i loro rapporti con la composizione sociale: A. MAZZI, Le vicinie di Bergamo, Bergamo, 1881; P. SELLA, La «vicinia». Proprietà collettiva e democrazia diretta, Roma, Hoepli, 1927; J. HEERS, Urbanisme et structures sociales à Gênes au Moyen Age, in Studi in onore di A. Fanfani, I, Milano, Giuffrè, 1962; P. NARDI, I borghi di S. Donato e di S. Pietro a Ovile. «Populi», contrade e compagnie d'armi nella società senese dei secoli XI- XIII, in «Bullettino senese di storia patria», 1966-68, 73-75; E. NASALLI ROCCA, Palazzi e torri gentilizie nei quartieri della città medievale: l'esempio di Piacenza, in Raccolta storica in memoria di G. Soranzo, Milano, Vita e Pensiero, 1968; J. HEERS, Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, Liguori, 1974; C. KLAPISCH, Parenti, amici e vicini: il territorio urbano di una famiglia mercantile del XV secolo, in «Quaderni storici», XI, 1976; F. BOCCHI, Suburbi e fasce suburbane nelle città dell'Italia medievale, in «Storia della città», V, 1977; A. I. PINI, Le ripartizioni territoriali urbane di Bologna medievale. Quartiere, contrada, borgo, morello, quartirolo, Bologna, Atesa, 1977.

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2005