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Didattica > Fonti > La società urbana nell’Italia comunale > II, Introduzione

Fonti

La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV)

a cura di Renato Bordone

© 1984-2005 – Renato Bordone


Sezione II – Le funzioni

0. Introduzione

Definire le «funzioni» della città in generale, a ben vedere, significa definire il concetto stesso di città, in quanto essa si coglie per le funzioni che svolge: come abbiamo visto nella prefazione, già Weber era ricorso alle funzioni di «fortezza e mercato » per definire il ruolo della città e ancora Lopez, proponendo una tipologia generale, aveva parlato di «città-recinto, città-agraria, città-commerciale e città-industriale», sottolineando, di volta in volta e in fase ascendente, una particolare funzione caratterizzante l'attività dei suoi abitanti. Definire le funzioni svolte da una singola città significa definire le ragioni stesse della sua esistenza e del suo sviluppo particolare: in altre parole significa abbracciarne l'intero corso storico.

D'altra parte, l'analisi delle singole funzioni, proprio perché strettamente connesse con l'intera sfera d'azione della città, può contribuire, in sede espositiva, a chiarire meglio gli elementi caratterizzanti il fenomeno urbano e la loro interazione: la funzione infatti determina il contenuto sociale della città e al tempo stesso è determinata dalla composizione degli abitanti che esercitano un certo tipo di attività, delimita un'area di influenza territoriale nei confronti della quale si è sviluppata, e insieme è sollecitata dalla domanda che da quell'area viene posta.

Nel suo studio sulla città preindustriale Sjoberg ha legato strettamente il problema delle funzioni con quello della «dislocazione» della città – pur evitando un troppo rigido determinismo geografico, con il considerare fattori della dislocazione, oltre all'ambiente, anche la tecnologia, la struttura economica, politica e culturale – e ha giudicato funzioni «decisive» quelle politiche (sia amministrative, sia militari), quelle economiche, quelle religiose e quelle legate all'istruzione, avvertendo che nessuna città adempie mai a una funzione soltanto con esclusione delle altre, anche se non mancano città con ruoli particolari, determinati dal maggiore sviluppo di una di esse. Roncayolo ha insistito su questo aspetto, mettendo in guardia come alcune di tali funzioni non siano caratteristiche solo della città – santuario, assemblea politica, mercato sono talvolta solo luoghi di riunione periodica; castelli e fortezze non si identificano necessariamente con le città – e sottolineando la mutazione di contenuto che possono assumere nel tempo: «la semplice addizione di funzioni elementari non fornisce una spiegazione sufficiente, né rispetto alla genesi né rispetto alla struttura», ma occorre cogliere l'intreccio, fino ad arrivare alla definizione di una funzione urbana, intesa più come forma che come contenuto. Abbiamo già visto in precedenza come le città medievali italiane si caratterizzino per il loro ruolo di centralità nei confronti del territorio e dunque proprio questa può essere la strada migliore di approccio alla funzione urbana: centralità politico-amministrativa, centralità commerciale, centralità religioso-culturale. Certamente tutto ciò va visto in chiave diacronica, tenendo conto dello sviluppo dei singoli aspetti, ma, come ha sottolineato Sjoberg, è la centralità del potere e la sua conservazione nel tempo che garantisce alla città preindustriale l'espletamento delle altre funzioni: in quanto sede della vita politica la città attira, commercia e trasforma il surplus produttivo del territorio; controlla, amministra e protegge militarmente; favorisce lo sviluppo di una cultura urbana.

Una prospettiva di tal genere appare calzante proprio nel caso della città italiana medievale e, in particolare, della città-stato, che non solo assomma le funzioni elementari ma svolge una vera e propria funzione urbana di accentramento di servizi e di attività nei confronti di un sistema territoriale sempre più ampio che non conosce quasi, a differenza di quanto succede Oltralpe, aree centrifughe, svincolate da un riferimento urbano: già alla metà del XII secolo agli occhi di un osservatore esterno come il vescovo Ottone di Frisinga appariva infatti «tota illa terra inter civitates ferme divisa», nel senso che «singule [civitates] ad commodum suum diocesanos compulerint, vixque aliquis nobilis vir magnus tam magno ambitu invenire queat, qui civitatis sue non sequatur imperium» (doc. 1). Alla base c'è dunque un motivo politico (l'imposizione dell'imperium), sorretto da un'azione militare o, in ogni caso, di costrizione (la compulsio dei diocesani), esercitata sugli abitanti del territorio e indirizzata a un controllo economico, oltreché giurisdizionale, dell'area circostante, in grado di rendere le città lombarde di gran lunga preminenti sulle «ceteris orbis civitatibus» proprio per «divitiis et potentia»: la funzione della città, vista qui in senso «aggressivo» nei confronti del sistema urbano, appare, di riflesso, quella di polarizzare su di sé le energie del territorio, dal punto di vista politico-militare (potentia) ed economico (divitia).

Se la città italiana in età comunale aveva coscienza della sua funzione urbana e perseguiva deliberatamente una politica di accentramento, occorre però rilevare che la centralità politico-amministrativa della città, lungi dal nascere con l'affermazione del comune, ha origini più antiche che in molti casi si possono davvero riallacciare all’età romana e che, comunque sia, nel periodo longobardo-franco avevano trovato corroborazione nell'abituale suddivisione del regno in circoscrizioni aventi come capoluogo, in maggioranza, una città sede vescovile. La compresenza del vescovo, sempre stabile, e del funzionario, spesso temporanea, facevano della città il punto di attrazione per gli abitanti sia della diocesi sia del comitato, che vi si recavano in occasione di feste religiose, di dibattimenti giudiziari che li riguardassero, di minacce di pericoli bellici, di scambi commerciali: connesse con il centralismo politico appaiono dunque fin da questo periodo le funzioni cosiddette «elementari» che ritroveremo in età comunale.

Sulla base di queste considerazioni possiamo allora verificare l’estensione e gli sviluppi della funzione urbana nel corso del Medioevo, prendendo in esame rispettivamente due periodi, individuati dal diverso tipo di amministrazione politica, quello precomunale e quello comunale. Della funzione politica, però, non parleremo qui che indirettamente, riservandoci di considerarla nella Quarta sezione, dedicata alle strutture politico-sociali, e analizzeremo singolarmente le funzioni militari, economiche e religioso-culturali e le loro reciproche relazioni.

 

1. Nel corso del X secolo, durante il turbinoso periodo cosiddetto «dei re nazionali» e in quello immediatamente successivo, caratterizzato dall'energica azione degli imperatori della casa di Sassonia, parecchie sedi vescovili (già abbiamo visto il caso di Bergamo e di Parma; Prima sez. docc. 2 e 4) ottennero privilegi regi e imperiali relativi alle città: con poche varianti locali, determinate da situazioni particolari, quasi tutti i diplomi indirizzati ai vescovi, nel concedere loro, insieme con la protezione ufficiale della chiesa vescovile, l'esercizio di diritti già di pertinenza pubblica, elencano l'autorizzazione al restauro delle mura, l'amministrazione della giustizia (districtus) e la riscossione dei diritti di mercato (teloneum, curatura). Mura, giustizia, mercato e chiesa appaiono dunque come il «contenuto» del potere cittadino dei vescovi, sono cioè gli elementi che nel loro complesso individuano la città e insieme ne rappresentano le funzioni elementari.

Vediamo anzitutto i moenia civitatis, strumento ed espressione della funzione militare. Circondando l'agglomerato urbano, si distinguono giuridicamente dalle mura di un qualsiasi castrum o edificio fortificato e in un certo senso sono il simbolo visibile dell'essere città di un insediamento cittadino, tant'è che il re dei Longobardi Rotari, impadronitosi di alcune città della Liguria che gli avevano opposto resistenza, per abbassarle al rango di semplici villaggi ne abbatte le mura, come ricorda il cronista Fredegario, affermando che «muros earum usque ad fundamentum destruens, vicos has civitates nominari precepit» (doc. 2). La loro funzione pratica è quella difensiva e in essa sono impiegati tutti i cittadini ai quali spetta anche una partecipazione finanziaria alla manutenzione, come già abbiamo visto nel caso di Verona (Prima sez., doc. 1). Durante la guerra le mura rappresentano un'efficace protezione contro i nemici e un motivo di sicurezza per gli abitanti che le difendono perché la loro conquista necessita di particolari tecniche poliorcetiche e di un numero elevato di assedianti. In Liutprando, vescovo di Cremona e cronista delle guerre all'età dei re nazionali (doc. 3), si può cogliere un accenno all'importanza anche psicologica rivestita dalle mura per gli abitanti di Milano: il duca di Svevia Burcardo cavalcando nel 926 attorno alle mura afferma infatti che non lo impressionano certo «la robustezza di queste mura né la loro altezza da cui [i Milanesi] credono di essere protetti», ma morirà pochi giorni dopo cadendo con il cavallo proprio «in fossam que muros circuit civitatis», sotto Novara. La robustezza e l'altezza delle mura non erano state invece sufficienti a difendere i Romani dall'impeto dell'esercito di Arnolfo, che espugnò la città scavalcando le mura e sfondando la porta con «una trave di cinquanta piedi di lunghezza», secondo quanto narra lo stesso Liutprando.

Sugli obblighi e sull'organizzazione militare della popolazione cittadina in questo periodo siamo scarsamente documentati: oltre all'impegno finanziario nei restauri, conosciamo l'esistenza di scolte di guardia sulle mura ed è probabile che a tali funzioni di presidio si debba la più antica divisione in hore, cioè in turni orari di guardia, fra le varie parti della città, attestata in più città italiane. Ma è soprattutto in caso di descrizione di assedi che le fonti diventano meno laconiche e offrono un numero maggiore di informazioni sulle strutture difensive e sull'organizzazione militare della città: esemplare, a questo proposito, appare la pagina di Landolfo Seniore relativa all'assedio di Milano del 1037 (doc. 4). Nell'XI secolo, anzitutto, le mura di Milano, valutate con tanta leggerezza un secolo prima da Burcardo, si presentano come una formidabile macchina bellica costituita da una cerchia di ben 310 torri murali, sorgenti a distanza così ravvicinata che coloro che erano di guardia potevano parlarsi, e da un numero imprecisato di porte difese da fortificazioni esterne e da saracinesche («portis et seris et anteportis»). Le milizie cittadine, narra Landolfo, di fronte all'impeto delle truppe imperiali dapprima reagiscono in modo confuso, ma in seguito si riorganizzano secondo precise istruzioni e contrattaccano: è degno di nota il preciso riferimento fatto dal cronista ai magistri belli e alla suddivisione in unità organiche di combattenti, perché implica un vero e proprio ordinamento militare che sembra anticipare quello comunale sia dal punto di vista organico sia da quello tattico. Per ciò che concerne l'organizzazione siamo infatti informati che l'esercito cittadino, composto da milites e da pedites, era costituito da legiones formate da un numero imprecisato di reparti minori, le centene; tatticamente le legioni si alternavano nel combattimento in linea a seconda delle necessità segnalate dalle vedette, mentre centene di cavalieri, al di fuori delle mura, facevano rapide incursioni di guerriglia contro il grosso degli assedianti; un forte spirito di disciplina, a detta del cronista, faceva in modo che le operazioni di difesa e di offesa si svolgessero ordinatamente. L'arcivescovo stesso pare essere al comando, presso l'arco trionfale, presidiato da un reparto scelto di milites che difendono l'insegna ambrosiana.

Il ruolo svolto dal vescovo in questo frangente appare quello della suprema autorità militare, secondo la caratteristica compresenza delle responsabilità civili e militari nella medesima figura di «capo» che era già stata del funzionario franco e prima ancora del duca longobardo. Ma il vescovo è soprattutto la massima autorità religiosa che coordina e accentra le manifestazioni di culto non solo della città bensì dell'intera diocesi; proprio grazie alla residenza urbana del vescovo la città medievale italiana assolve infatti la funzione di centro religioso nei confronti del sistema territoriale che la circonda, sia esso rappresentato dall'intera diocesi, a sua volta articolata in pievi rurali, sia dall'area più circoscritta e in origine coincidente con il suburbio, definita pieve urbana o «plebs civitatis». Proprio nei confronti della popolazione della pieve urbana residente all’esterno delle mura la chiesa cattedrale manifesta maggiormente il suo carattere accentratore: fin dal VI secolo era infatti stabilito che le maggiori solennità del ciclo liturgico venissero celebrate «in civitatibus aut in parochiis» (cioè nelle pievi rurali), benché fosse concessa la celebrazione ordinaria della messa negli oratoria sorti all'interno delle grandi aziende agricole collocate al di fuori dei concentramenti urbani (doc. 5). Quest'area, definita dal X secolo «territorium decimationis», appare nel corso dei tempo tutt'altro che immutabile, anzi piuttosto in fase di espansione, poiché tendeva a inglobare le chiese nuove sorte nei centri minori contigui alla città, sottraendoli al controllo originario delle singole pievi rurali in virtù di donazioni fatte direttamente al vescovo, sintomo anche questo di uno spiccato orientamento verso la chiesa cittadina da parte dei fondatori o dei detentori dei nuovi insediamenti religiosi: ad Asti (doc. 6) si parla fin dall'inizio dell'XI secolo di «quidquid de decimis amplius adiacet civitati». All'interno della diocesi la chiesa cittadina dunque coordina più in particolare un sistema territoriale intermedio che supera le dimensioni strettamente urbane senza identificarsi con i troppo vasti confini diocesani, un sistema, in conclusione, pressoché coincidente con l'estensione di quel distretto politico-amministrativo su cui ci siamo soffermati in precedenza e la cui espansione pare direttamente proporzionale allo sviluppo della città.

Di più vasto respiro geografico sembra invece presentarsi l'altra funzione strettamente collegata a quella religiosa, cioè la funzione culturale, esercitata dalla città in quanto sede della scuola annessa alla cattedrale. Non è qui luogo per soffermarsi sugli aspetti particolari dell'attività dei chierici come depositari degli strumenti culturali; ciò che in questa sede preme sottolineare è il ruolo della scuola sorta presso la cattedrale che funge da attrazione verso il centro cittadino nei confronti del resto del territorio. Dalla pagina di Landolfo Seniore dedicata alla «scuola dei filosofi» (doc. 7), collocata nell'atrio interno a fianco della porta nord della cattedrale di Milano, emerge con evidenza il carattere non esclusivamente religioso dell'insegnamento – le scuole di canto appaiono infatti distinte anche topograficamente (atrio esterno) – impartito dai magistri che avevano perizia nelle varie scienze e venivano pagati direttamente dall'arcivescovo, e si può notare la provenienza diversa degli scolari che convenivano dalla città o da luoghi più lontani («urbani et extranei»), attratti dall'importanza dell'istituzione. Anche sotto questo aspetto, come in campo militare, l'arcivescovo diventa quasi il simbolo della funzione svolta dalla scuola cittadina e il cronista ce lo mostra come il vigile soprintendente agli studi («magistros ac scolares in studiis adhortans»).

Per la carenza di fonti dirette, in questo campo appare più arduo cogliere i confini di un «sistema territoriale» nei confronti del quale la città svolga il ruolo di centro culturale, anche se fin dal IX secolo il noto capitolate di Corte Olona dell'imperatore Lotario (doc. 8) aveva suddiviso il regno italico in nove distretti scolastici superiori, di cui però non possiamo controllare l'effettivo funzionamento: il provvedimento, in ogni caso, illustra la fioritura culturale delle chiese cattedrali e getta luce sui rapporti intercorrenti fra città e città, creando un'approssimativa gerarchia di importanza fra le varie sedi scolastiche cittadine, suggerendo una serie di sistemi formati da un certo numero di città «minori» gravitanti su città centralizzanti. Una prospettiva di questo genere, è chiaro, va ben al di là del fatto culturale in sé e implica una serie di strutture difficili da verificare per questa età, a cominciare dalla rete stradale regionale e dai mezzi di collegamento fra città e città: un tema di fondamentale importanza, collegato a quello dell'approvvigionamento e, più in generale, a quello del commercio e della circolazione monetaria.

Centralità politico-militare e religioso-culturale della città non possono infatti fare a meno di riferirsi a una centralità economica in grado di accumulare il surplus produttivo necessario al sostentamento dei cives. Anche sotto questo aspetto nel periodo precomunale il vescovo svolge un ruolo determinante esercitando il controllo sul mercato cittadino che, come abbiamo visto, gli viene comunemente confermato dai privilegi imperiali. Il mercato, naturalmente, esisteva già prima, ma è con la congiuntura economica favorevole e con l'incremento demografico che assume un'importanza particolare collegata con l'emergere del gruppo mercantile cittadino. Molto significativo, a questo proposito, appare il caso di Cremona (doc. 9), dove già alla metà del IX secolo una deputazione di «habitatores de civitate» presenta all'imperatore lamentele contro il vescovo che «commetteva molti soprusi nei loro confronti per le navi che essi conducevano al porto della città», richiedendo il pagamento di esazioni fiscali (ripaticum, palifictura, ecc.) dalle quali essi si ritenevano esonerati. Il dibattimento giudiziario che ne segue mette però in luce come al tempo di Carlomagno i Cremonesi non svolgessero autonomamente attività mercantile ma «portavano con le navi di Comacchio insieme con i Comacchiesi sale e altre spezie», pagando, come i mercanti di Comacchio pagavano fin dall'epoca del re longobardo Liutprando, le imposizioni richieste. Qualunque sia stata la sentenza – ai Cremonesi non vengono per ora riconosciuti privilegi che saranno invece concessi nel secolo successivo – il dibattimento mostra chiaramente l'intraprendenza dei gruppo cittadino e lo sviluppo del commercio avvenuto nell'arco di mezzo secolo, un commercio, si badi, che, se ancora non si può definire di lunga portata, è però già specializzato, poiché riguarda l'importazione dall'Adriatico di sale e di spezie. La compresenza del piccolo commercio e del commercio a lunga distanza rappresenterà un carattere inconfondibile del mercante cittadino che meglio si potrà vedere nel successivo sviluppo economico, ma già in questo periodo non mancano indizi sulla centralità economica della città, non soltanto nei confronti dell'area rurale di immediata fruizione, ma su più vasto raggio.

Non ignota già al mondo romano, la distinzione fra forum o mercato minuto e nundinae o fiere, anche nell'alto Medioevo persiste, caratterizzando la duplice funzione economica della città: il primo soddisfaceva infatti le esigenze quotidiane degli abitanti della città e consisteva negli scambi dei generi alimentari, vestiario e prodotti artigianali fra i cittadini e gli abitanti della campagna circostante, il secondo richiamava invece mercanti da luoghi più lontani e riforniva i cittadini di prodotti meno consueti o in ogni caso introvabili sul mercato locale. Prima ancora dei diplomi ottoniani, un bell'esempio di tale dualismo è dato dalla concessione del 913 fatta da Berengario alla chiesa di Vercelli con la quale si autorizza, da un lato, a tenere il «mercatum publicum» annuale della durata di quindici giorni e, dall'altro, il «mercatum ebdomadalem», il sabato di ogni settimana (doc. 10).

La specializzazione del commercio minuto e la molteplicità dei mercati cittadini che avranno sviluppo in età comunale appaiono la conseguenza del primo caso e ne forniremo in seguito degli esempi (doc. 33), ma l'attrazione principale che caratterizza la città italiana come sede dell'attività economica in questo periodo è senz'altro data dal mercato annuale, dalla fiera, che in Italia in modo particolare e a differenza delle città d'Oltralpe – dove non coincide con l’insediamento urbano – si identifica con la città stessa, come si può cogliere nei versi attribuiti all'eporediese Guido, vissuto nella seconda metà dell'XI secolo, che, per illustrare il «maximus urbis honor» non trova niente di meglio che descrivere, seppur ammantandola di reminescenze classiche, certo poco realistiche, una colorita fiera cittadina che accoglie mercanti d'ogni paese (doc. 11). Al di là del luogo letterario e dei riferimenti agli Indi e agli altri popoli classici, rimane interessante osservare come un chierico di Ivrea possa descrivere il mercato delle spezie, dei drappi di Fiandra, dell'oreficeria, per esaltare le caratteristiche della città ideale.

 

2. Già in età precomunale, dunque, la «funzione urbana» si chiarisce come vocazione al coordinamento e all'accentramento delle attività del territorio circostante, sia dal punto di vista politico-militare, sia da quello religioso-culturale, sia da quello economico: il trapasso fra vescovo e aristocrazia consolare non solo conserva, ma potenzia e porta al livello massimo di sviluppo le funzioni della città, perfezionando quella che con termine attuale si definisce «armatura urbana», con un deliberato disegno politico di supremazia cittadina sul resto del sistema territoriale: «città-stato», dunque, ma anche «città-capitale», almeno in potenza, di uno «stato» non omogeneo, ma certo interamente polarizzato dall'attività cittadina, ormai al di là dei confini «naturali» del distretto urbano di derivazione vescovile. Proporzionalmente alla crescita del territorio e della popolazione, le funzioni della città crescono in conseguenza, si complicano e si articolano meglio.

Dal punto di vista militare, da un lato, la città continua a svolgere una funzione difensiva tradizionale, legata alle sue stesse strutture fisiche, per così dire «passive», dall'altro perfeziona l'organizzazione dell'esercito come strumento di offesa di una volontà politica di espansione; anche in questo caso la centralità cittadina si manifesta sotto due aspetti: il primo come coordinamento interno della popolazione urbana in armi raggruppata per circoscrizioni topografiche, il secondo come obbligo militare degli abitanti extraurbani dipendenti politicamente dall'autorità comunale. Sia per quanto riguarda le strutture difensive sia per quanto riguarda l'organizzazione militare la città è dunque il punto di riferimento dell'intero territorio.

Abbiamo già osservato in precedenza come nell'alto Medioevo le mura cittadine accolgano al loro interno i confugientes della campagna e rappresentino quasi il simbolo della tutela urbana (Prima sez., doc. 2). Ampliate a contenere l'accresciuta popolazione stabile e l'afflusso temporaneo dei rifugiati rurali, ancora in età comunale rispondono alle medesime esigenze, specie nei momenti di pericolo, aumentati nel XII secolo per le concorrenze politiche fra i diversi comuni che si incrociano con la prova di forza voluta dal Barbarossa. Proprio di quegli anni cruciali è la testimonianza di un cronista di Lodi, Ottone Morena, al quale faremo spesso ricorso per la particolare attenzione che rivolge al fatto militare (doc. 12). Negli scontri fra Lodigiani e Cremonesi nel 1167, questi ultimi utilizzano la classica tecnica del saccheggio e della razzia attorno alla città costringendo la popolazione contadina a rifugiarsi all'interno delle mura con tutti gli averi mobili, masserizie e bestiame; alla resa di Milano il Barbarossa, proprio per colpire la funzione difensiva urbana, impone subito ai consoli l'abbattimento di un tratto delle mura corrispondenti a ogni porta, per poter entrare con il suo esercito; in seguito gran parte di esse sarà rasa al suolo. Durante la fioritura comunale tutti gli statuti cittadini manifestano particolare attenzione alla tutela delle mura e, quando il peso demografico farà stanziare l'insediamento al di fuori di esse, il comune provvederà tempestivamente ad allargare la cerchia per comprendervi le nuove appendici urbane. Ancora nel Trecento, quando Firenze ha ormai realizzato la terza cerchia, le Provvisioni stabiliscono la massima agibilità degli apparati difensivi, facendo esplicito divieto di costruire qualsiasi edificio sopra e attorno alle mura, «che possa essere causa di indebolimento della detta città o di danneggiamento delle mura stesse», per una distanza di otto braccia tutto all’intorno (doc. 13). Esula dai nostri termini cronologici prendere in esame gli sviluppi della difesa urbana con l'avvento delle armi da fuoco, ma è opportuno ricordare come mura e bastioni di cinta urbana rimangano fino a tempi a noi vicini il contrassegno più caratteristico della città preindustriale.

Con l'avvento del comune aumentano le fonti rimaste relative all'ordinamento militare, perché il controllo della città investe una porzione più ampia di territorio e gli abitanti di essa sottoposti all'autorità urbana vengono obbligati fin dal principio a svolgere mansioni difensive o in modo diretto o con contribuzioni in denaro. A Genova, ad esempio, già nel 1142 esiste un elenco di luoghi suburbani i cui abitanti sono soggetti a obblighi militari nei confronti del luogo di residenza per conto, beninteso, della repubblica, oppure sono assegnati alla difesa delle fortificazioni urbane (doc. 14). L'attrazione esercitata dalla città sul contado si risolve sempre in obblighi militari contratti da chi si subordina o si allea: sempre a Genova, di pochi anni precedente alla guardia civitatis è il giuramento della «Compagna», cioè l'ingresso a pieno titolo nella cittadinanza, dei marchese di Ponzone, rappresentante dell'aristocrazia del territorio (doc. 15); fra le clausole, in posizione principale compaiono quelle militari: il marchese mette infatti a disposizione del comune i suoi castelli e si impegna a partecipare personalmente all'hostis comunale «cum duobus militibus», specificando che in caso di impossibilità invierà il figlio, sempre accompagnato da due cavalieri a proprie spese. Degna di nota è infine la clausola con la quale il comune di Genova estende la sua facoltà di coscrizione militare anche sugli abitanti dell'area a valle dei Giovi, sottraendoli all'autorità marchionale e sottoponendoli alle dipendenze del comune stesso. Questo modo di acquisizione aiuta a comprendere il vasto raggio topografico su cui agisce la precettazione genovese descritta nella guardia civitatis di sei anni dopo e conferma la funzione di centro coordinatore del territorio che la città esercita nei confronti della campagna fin dalla prima metà del XII secolo.

Per quanto riguarda i primi ordinamenti militari interni della città comunale sarà poco più tardi lo scontro con il Barbarossa a fornirci le tracce più cospicue e organiche: proprio nel caso di Milano, dove, come abbiamo visto, non erano mancati indizi di forme di coordinamento, sappiamo da Ottone Morena (doc. 16) che l'esercito comunale era direttamente agli ordini dei consoli, contava raggruppamenti organici formati dai quartieri cittadini che, in caso di operazioni militari, come all'assedio di Lodi, fungevano da colonne d'assalto, ciascuna indirizzata a un obiettivo particolare. Milites e pedites rappresentavano la tradizionale suddivisione delle milizie, ma a essi si affiancavano corpi speciali di arcieri, balestrieri e addetti alle macchine nervo-balistiche in grado di lanciare proiettili infiammari al di la delle mura delle città assediate. Le unità organiche minori, tanto dei fanti quanto dei cavalieri, erano comandate da alfieri che portavano in combattimento le insegne del proprio reparto: durante la resa al Barbarossa gli vengono infatti consegnati 36 vessilli di cavalleria e 94 di fanteria (doc. 12/b). Simbolo della potenza militare del comune era poi, in tutte le città italiane, il «carroccio» – di cui si può vedere la descrizione pressoché immutata tanto in Ottone Morena, quanto, a oltre un secolo di distanza, in Bonvesin da la Riva (doc. 17) –, un carro trainato da sei paia di buoi su cui era innalzata un'antenna ornata da una croce dorata e reggente il grande stendardo comunale; attorno al carroccio erano schierati reparti di fanteria e su di esso prendevano posto un magister, a cui era affidata la custodia, e un cappellano tenuto a officiare quotidianamente, e probabilmente i trombettieri del comune; la tromba serviva inoltre a segnalare gli ordini, sia per l'adunata sia per il combattimento.

Con lo sviluppo della codificazione, nel corso del Duecento, gli statuti comunali ci informano sempre meglio sull'organizzazione militare cittadina e sulle modalità di reclutamento: a Bologna, ad esempio, tutti i cives possessori di beni iscritti all'estimo dovevano prestare il servizio militare dai diciotto ai settant’anni; il loro tipo di equipaggiamento dipendeva dall'ammontare del patrimonio: chi dichiarava il proprio superiore alle 200 lire doveva scendere in campo con armi pesanti, chi possedeva meno con armi più leggere. Più complesso appare il reclutamento di cavalleria per i tradizionali legami intercorrenti fra questo servizio e la cerimonia dell'addobbamento cavalleresco-aristocratico; nelle città italiane, di massima, i «milites pro comuni» non erano tutti nobili, ma la distinzione dai pedites avveniva in base al censo: ad Arezzo occorreva l'accertamento di un estimo di almeno 500 lire, a Parma di 600. L'uomo che forniva il cavallo da combattimento su imposizione dei magistrati a ciò preposti riceveva il necessario per il suo mantenimento e veniva risarcito in caso di ferita o di morte dell'animale a servizio del comune. A Bologna, sia per la fanteria sia per la cavalleria, base del reclutamento era la circoscrizione urbana di appartenenza: l'alfiere di ogni quartiere doveva organizzare i milites del suo quartiere in drappelli di dieci uomini (decena) al comando di un capitano, tenuto all'obbedienza all'alfiere, e in via gerarchica al podestà o al suo vicario; l'alfiere durava in carica un anno e riceveva un compenso di 300 lire al quale si aggiungeva una diaria di 10 soldi in caso di missione (doc. 18).

Il podestà, che anche in questo campo aveva sostituito i consoli, rappresentava la massima autorità militare, era tenuto a guidare le truppe durante le campagne (exercitus) e le scorrerie (cavalcate), disponeva di una guardia scelta, per lo più mercenaria (berrovieri), e aveva in carico le proprie salmerie. Le trasformazioni politiche che nel corso del Duecento subì la classe dirigente delle città italiane non incisero particolarmente sui meccanismi dell'arruolamento e dell'organizzazione militare, salvo a contribuire anzi a trasformarla talvolta in organizzazione politica, come vedremo più avanti: l'avvento del primo popolo a Firenze, come narra Malispini (doc. 19), conservò la circoscrizione, cioè il sestiere, come base del reclutamento, si stabilirono due anziani per sestiere alle dipendenze del capitano dei popolo e venti caporali o gonfalonieri, suddivisi per compagnie e vicinanze, «acciocché quando bisognasse ciascuno dovesse trarre armato al Gonfalone della sua compagnia, e poi co' detti Gonfaloni trarre al detto Capitano del popolo». La riforma non si limitò alla città ma riguardò anche la campagna, dove gli abitanti furono organizzati in leghe, «acciocché l'una atasse l'altre, e venissono in Città, e in oste quando bisognasse». Rapporti ordinati fra coscrizione cittadina e coscrizione rurale si mantennero fin verso la metà del secolo, anche se già in precedenza vi furono sporadici ricorsi a milizie mercenarie; il ricorso a soldati di mestiere divenne però sempre più frequente nella seconda metà del secolo, ma – a detta di Waley – essi non sostituirono mai del tutto, fino al XIV secolo, la milizia cittadina, che continuava a esistere e a svolgere un ruolo principale nell'esercito comunale.

 

3. Anche dal punto di vista religioso e culturale la città mantiene e accresce la sua funzione con l'avvento del comune, sia per l'accresciuto numero degli abitanti, sia per le particolari relazioni che si instaurano fra autorità civile e autorità ecclesiastica. Il vescovo, il cui potere politico si va via via circoscrivendo con l'affermazione della classe che aveva in precedenza collaborato con lui, continua a conservare il suo prestigioso ruolo di capo spirituale e la cattedrale cittadina assume sempre più il carattere di simbolo della nuova comunità sociale che si riconosce nel comune culto del santo patrono e in onore del quale intraprende le iniziative di carattere politico. Ancor prima del sorgere del comune il culto del santo e delle sue reliquie ha attestazioni vistose come elemento aggregante della popolazione cittadina e come attrazione verso la città per gli abitanti delle campagne circostanti: la descrizione della traslazione del corpo di san Geminiano (doc. 20), strettamente legata all'edificazione del duomo di Modena (1099-1106) ne è eloquente indicazione, mostrandoci la grande folla assiepata in città per quell'occasione, al punto che «nullus locus […] nulla platea, nulla domus, nullus porticus, nullum atrium […] a conventu populorum poterit invenire vacuum». Più tardi, in tutte le norme statutarie comunali il culto del patrono occupa una posizione particolare, anche se la religiosità del tempo tende ad accogliere una schiera nutrita di protettori nel proprio pantheon cittadino.

L'aumento della popolazione e lo sviluppo urbanistico avevano intanto moltiplicato le chiese cittadine, creando o rinsaldando vincoli di vicinanza che trovavano a loro volta nella parrocchia il loro punto di riferimento e di coordinamento anche al di fuori dell'ambito propriamente religioso. Le autorità del comune e i rappresentanti delle articolazioni sociali in cui la società cittadina era divisa avevano assunto la protezione della chiesa – come fin dal 1141 attestano le donazioni dei consoli genovesi a favore dell'arcivescovo e del capitolo di S. Lorenzo (doc. 21) – e manifestavano anche formalmente la loro partecipazione alla vita religiosa intervenendo in forma ufficiale ai periodici cerimoniali quali le processioni. Una pagina trecentesca del pavese Opicino de Canistris (doc. 22) ci mostra infatti le numerose occasioni in cui il comune e i rappresentanti delle corporazioni offrono «serico vel auro texto pallio» alle chiese e ai monasteri cittadini; interessante, nella sua colorita precisione, la descrizione della processione dei ceri dei paratici (organizzazioni professionali), ma più interessante ancora, per quanto concerne le relazioni fra spirito cittadino e liturgia, appare il riferimento che Opicino fa ai riti tradizionali per la festa di san Giovanni, durante i quali il podestà stesso «ascendens in altum, concionatus de laudibus civitatis».

La funzione religiosa della città – e, per converso, la funzione cittadina del culto – non si limita in questo periodo alla prosecuzione, sia pure enfatizzata, di una tradizione vescovile-patronale che aveva le sue radici già nell'età precedente, ma assume uno sviluppo del tutto nuovo con l'affermarsi degli Ordini mendicanti nel corso del Duecento. Le strette relazioni che, fin dalla loro creazione, si stabiliscono infatti fra la città e gli Ordini mendicanti hanno portato in Francia a promuovere una vasta indagine sulla distribuzione dei conventi nelle varie città francesi, al fine di stabilire una gerarchia urbana sulla base del loro numero. Ritiene infatti Jacques Le Goff che l'orientamento dei Mendicanti a stabilirsi in città si inserisca nel generale movimento di urbanizzazione caratteristico del XIII secolo e, anzi, alla loro espansione presieda una vera e propria programmazione di fondazioni urbane che tiene conto dell'importanza delle città prescelte, del numero degli abitanti, ecc. A differenza degli altri Ordini, Francescani e Domenicani (doc. 23) rifiutano una vita eremitica per dedicarsi alla vita urbana e giustificano questa scelta in base a una serie di ragioni che confermano l'importanza anche religiosa assunta dalla città: il desiderio pastorale di esercitare una predicazione quantitativamente più efficace dove la popolazione è più numerosa e agglomerata e di conseguenza più elevato il numero dei peccatori, la necessità materiale di avere a disposizione risorse di sussistenza e garanzie di sicurezza all'interno delle mura (a differenza degli altri Ordini tradizionali che traggono il necessario dai loro beni fondiari), l'importanza delle città e il loro ascendente sulle campagne che ne imitano i comportamenti. Da queste argomentazioni si coglie come i superiori degli Ordini mendicanti non solo avessero coscienza del carattere urbano delle loro fondazioni, ma su di esso basassero la loro politica pastorale. L'impronta impressa dai predicatori nelle città italiane è profonda – come ha rilevato Guidoni, forse con qualche eccesso – e, ancor più di quella lasciata dalle strutture ecclesiastiche tradizionali, caratterizza un momento preciso della storia urbana, legato alla costruzione di grandi chiese atte a contenere le folle e all'influenza anche politica che gli Ordini vanno gradatamente assumendo all'interno del comune. Situati all'interno delle mura o, compatibilmente agli spazi disponibili, in area immediatamente suburbana, come a Padova, i conventi dei Mendicanti assumono, fra gli edifici sacri, un'importanza notevole, secondi soltanto alla cattedrale, e proprio in quest'ordine vengono infatti elencati dal cronista padovano Savonarola che, ormai nel Quattrocento, ce li descrive come «loca amplissima et locupletissima», sedi di preghiera ma anche di cultura, in quanto ospitano un elevato «magistrorum aut bachilariorum numeras» (doc. 24).

Il convento dunque, oltre a espletare una funzione religiosa, appare anche come centro di cultura urbana, secondo quella tradizione cittadina di più antica origine che, come abbiamo visto, voleva accanto all'edificio sacro la scuola aperta a chierici e laici. Ciò non deve però far pensare a una sorta di monopolio culturale da parte della chiesa, poiché, come è stato dimostrato da Cencetti, è proprio caratteristica della città italiana la spontanea organizzazione laica della scuola superiore: sono infatti gli scolari a raccogliersi attorno a un maestro laico, di retorica o di giurisprudenza, almeno al principio, a riconoscerlo come capo della loro societas e ad ascoltarne l'insegnamento, provvedendo alla sua remunerazione (doc. 25). Dalla coesistenza di un certo numero di societates laiche può nascere uno studium nella città in cui affluiscono anche studenti da altri luoghi e questo è il processo originario delle università italiane, anche se non tutti i centri di studio verranno in seguito riconosciuti come università.

Il caso classico è rappresentato da Bologna, sede di insegnamento laico di maestri quali Irnerio, «lucerna iuris»: anche qui sono state le societates di studenti a dare vita alla scuola, la cui rinomanza produsse afflusso di forestieri in città; in seguito, per sottrarre gli studenti non cittadini al diritto di rappresaglia – il diritto cioè per il quale un cittadino che avesse subito danno o offesa da uno straniero poteva rivalersi su un conterraneo del danneggiatore –, fu richiesto all'imperatore un privilegio che proteggesse chi accedeva allo studio bolognese e con la concessione del Barbarossa l'università poté affermare il proprio diritto di autonomia (doc. 26). I rapporti città-università non erano infatti sempre facili: come ha scritto Hastings, gli studenti di Bologna si organizzarono prima di tutto per proteggersi nei confronti dei cittadini, perché il prezzo delle camere e dei generi di consumo saliva rapidamente proprio per l'aumentato afflusso di forestieri; d'altra parte la presenza di una massa così considerevole di studenti rappresentava per i cittadini un buon cespite d'entrata. Anche il comune tendeva a interferire e a Bologna impose ai maestri un giuramento per impedire che si trasferissero con i loro studenti in altre città; tuttavia proprio il privilegio del Barbarossa concedeva agli studenti la scelta fra la giurisdizione del vescovo, quella del loro maestro (poi del rettore) e quella del giudice civile. In definitiva, era nello stesso interesse dell'autorità cittadina garantire, esercitando una qualche forma di controllo, il buon funzionamento dello studio e gli statuti prevedono infatti particolari norme di tutela per studenti e professori (doc. 27).

 

4. Fra le tradizionali funzioni della città quella che senza dubbio rivela lo sviluppo maggiore è infine la funzione economica e commerciale. Anzi, si può affermare con Lopez che le città «furono i centri motori della rivoluzione commerciale», poiché una popolazione concentrata risponde agli stimoli economici più prontamente di una popolazione dispersa, sicché «l’urbanizzazione e la diffusione dei rapporti commerciali furono due fenomeni che si rafforzarono a vicenda». Una chiara testimonianza dello sviluppo commerciale connesso con la presenza di una sede urbana in espansione è offerto da una lamentela che i Lodigiani presentano al Barbarossa (doc. 28): costretti a spostare, in seguito a distruzioni belliche, il mercato settimanale dalla città a un borgo extramurale, gli abitanti di Lodi raggiungono una notevole prosperità commerciale, attirando i mercanti delle città vicine, ma i Milanesi, vedendo la fioritura del commercio lodigiano, impediscono che il mercato si continui a tenere nel borgo e lo fanno trasferire in un campo aperto, dove nessuno abitava, provocando rapidamente un calo drastico della frequenza. La mancanza di quelle strutture e di quei servizi che solo l'agglomerato urbano (o suburbano) poteva fornire appare dunque – a ragione – agli occhi dei Lodigiani la causa del loro rapido declino commerciale. Di converso, lo sviluppo demografico e urbanistico della città garantisce un processo di commercializzazione elevato per l'aumento del volume degli scambi e della connessa produzione gravitante sulla città. Come ha rilevato Jones, in questo periodo i capitali si muovevano prevalentemente dalla terra verso le attività commerciali e la ricchezza veniva creata in sempre maggior misura nella città e in essa si andava sempre più concentrando. All'aumentata domanda locale la città rispondeva con lo sviluppo e la diversificazione delle attività di commercio e di mestieri artigiani, sollecitando l'autorità comunale a un intervento politico sia per la tutela e l’incremento del mercato regionale, sia per una regolamentazione dell'esercizio delle attività.

Nell'organizzazione civile della città il primo comune si trova infatti ad affrontare una situazione ereditata dal regime precedente non senza conflitti di competenza con il vescovo e con i suoi funzionari, ma complicata dai nuovi sviluppi provocati dall'incremento demografico. Per ciò che riguarda le relazioni con i beneficiari di particolari prerogative commerciali, pur mirando tendenzialmente a sostituirsi nell'esercizio, spesso il comune è costretto a conservarle ma esercita una sorta di controllo, per esempio confermandole di sua autorità, in modo che possano essere funzionali alla vita economica cittadina. È il caso del decreto genovese con il quale nel 1152 (doc. 29) i consoli riconoscono ai Visconti – antico ufficio cittadino, divenuto poi patrimoniale – i diritti tradizionalmente esercitati sui macelli e sulla vendita delle carni, determinando il numero dei bancha, la loro dislocazione e regolamentando le modalità di macellazione e di vendita. Analoghi diritti a Pisa invece, come vedremo in seguito, vengono direttamente assunti dal comune (Quarta sez., doc. 18). Ancora più tardi, come nel caso di Acqui (doc. 30), il vescovo continua a conservare diritti di curadia su parte delle merci in entrata sul mercato cittadino: proprio il loro elenco, d'altra parte, ci illumina sulle merci che dal contado potevano pervenire sul mercato di una piccola città che non esercitava traffici a vasto raggio, ma semplici scambi di livello locale, rappresentati da generi alimentari e da oggetti di piccolo artigianato.

Ben diversa si presentava invece la situazione delle città maggiori, demograficamente più consistenti ed economicamente «decollate» nel commercio sovraregionale: qui la diversificazione delle attività aveva ben presto portato all'articolazione degli addetti in corporazioni o «paratici», organizzati secondo precise norme relative sia agli obblighi degli appartenenti sia alla tutela e alla garanzia del prodotto e dell'occupazione. Vedremo in seguito quale peso politico assumano in alcune circostanze tali organizzazioni: ciò che interessa in questo contesto è il significato che rivestono nella prospettiva dello sviluppo economico della città. Uno sviluppo tale che costringe comune e paratici a elaborare una precisa normativa sia per quanto riguarda la distribuzione degli spazi fisici della città destinati al commercio, sia per quanto riguarda le modalità di controllo e di vendita dei prodotti, periodicamente aggiornate in un arco di tempo che va dalla fine del XII sin agli ultimi secoli del Medioevo e spesso perdura ancora in età moderna. A Piacenza, dove i mercatores rappresentano la corporazione più potente che controlla gran parte delle altre attività economiche, gli statuti tutelano in particolare il mercato dei tessuti, ne garantiscono il monopolio cittadino, ne stabiliscono i formati e impongono pene ai contravventori (doc. 31). A Firenze le autorità cittadine intervengono per favorire l'afflusso dei generi alimentari dal contado al mercato cittadino, rinunciando a riscuotere gabelle «pro fructibus» dai contadini dei distretto, e si preoccupano di tenere sgombre le aree destinate al commercio impedendo il transito dei cariaggi (doc. 32). Una vivace descrizione del mercato di Pavia nel Trecento ci ha lasciato Opicino de Canistris che ci informa anche sulla distinzione topografica dei punti di vendita delle singole merci, distribuite nelle varie piazze della città, secondo una tradizione perdurata molto a lungo e che ha lasciato ancora oggi cospicue tracce nella toponomastica cittadina (doc. 33).

La moltiplicazione dei mercati cittadini rappresenta forse il segno più tangibile dello straordinario sviluppo della domanda di una popolazione in continuo aumento, ma è insieme il risultato di una politica di accentramento urbano delle risorse, a medio e a vasto raggio, costantemente svolta dai comuni maggiori.

Nelle città-stato italiane il problema commerciale appare infatti fin dalle origini al centro degli interessi della classe politica, spesso composta da elementi mercantili: in alcuni casi si può cogliere, prima ancora di un premeditato disegno di egemonia territoriale, un chiaro orientamento rivolto, tramite alleanze e patti di subordinazione stipulati con signori e comunità, al superamento degli impedimenti provocati da pedaggi locali su vitali percorsi commerciali e alla tutela della sicurezza degli itinerari dei mercanti cittadini. Asti, ad esempio, in via di affermazione economica non soltanto regionale, ma anche sulle piazze oltralpine, per la sua funzione di intermediaria fra Genova e le fiere della Champagne, nel 1224 stipula con i marchesi del Carretto di Savona un accordo «de strata securiter tenenda a civitate Ast usque ad Sagonam», stabilendo l'obbligo di indennizzo da parte dei marchesi in caso di «damnum vel robaria vel offesa» (doc. 34). Trattati analoghi erano già stati stipulati in passato e riguardavano l'esenzione dal pedaggio per i mercanti astigiani in transito sulle terre del marchese.

Se patti di questo tipo consentivano alla città l'ampliamento della propria area di mercato a livello regionale, gettavano d'altro canto le basi per quel commercio a vasto raggio che in modo tanto caratteristico individua l'attività delle città italiane nel Medioevo e fa emergere la figura nota in tutta Europa del mercante «lombardo » e «toscano»: sfruttando, come scrive Jones, la loro posizione strategica al crocevia fra Oriente e Occidente, le città italiane progrediscono così «da un'economia meramente urbana a un'economia metropolitana», volgendosi, a seconda della dislocazione, tanto al commercio marittimo nel Mediterraneo, quanto a quello transalpino; Genova, Pisa e Venezia si affermano nel Mediterraneo grazie alle nuove possibilità di penetrazione commerciale offerte dalle crociate e portano in Europa dall'Oriente prodotti come le spezie, il cotone, l'allume, che esportano poi, direttamente o tramite le città dell’interno, nei paesi settentrionali dai quali ricevono in cambio manufatti, specie tessili, che in parte immettono sui mercati meridionali, in parte indirizzano alle industrie di trasformazione italiane.

La «piazza» cittadina diventa il centro delle transazioni non soltanto commerciali ma anche finanziarie per l'inevitabile sviluppo che l'attività finanziaria ottiene con l'incremento del commercio con l'estero; prende così più forma la figura del cambiavalute, del prestatore di denaro che finanzia le imprese a vasto raggio senza muoversi dalla città: a Genova, ad esempio, la «platea Malocellorum ubi morantur campsores» diventa davvero, com'è stato scritto, la city (doc. 35). Nell'evolversi della sua funzione economica nel corso di pochi secoli la città italiana si è trasformata in centro d'affari, sede sociale delle ricchissime banche con agenti e fattori disseminati per tutta Europa. Parallelamente in molte città l'artigianato locale, sollecitato dall'aumentata domanda e dalla possibilità di commercializzazione dei prodotti, si trasforma in industria organizzata su basi capitalistiche: spesso sono gli stessi mercatores ad assumere la duplice caratteristica di commercianti e imprenditori industriali; specie per l'attività tessile infatti non si limitano più a importare panni ma li producono direttamente. Un tale sviluppo economico portò a un'ulteriore specificazione funzionale, legata all'emergenza delle attività svolte in ciascuna di esse – così, secondo Jones, Venezia e Genova si caratterizzarono per il loro predominio nelle attività commerciali, Firenze e Milano nello sviluppo industriale, Siena, Piacenza e le città piemontesi per l'attività bancaria, anche se occorre sempre tenere presente la completezza nelle varie attività economiche non solo nella stessa città, ma addirittura negli stessi personaggi (o famiglie) che vi si dedicavano, definibili, con il termine moderno di più vasta accezione, «uomini d'affari».

 

Organizzazione militare, sviluppo del senso civico-religioso degli abitanti, nascita dell'università e trasformazione dell'insediamento urbano in centro di affari rappresentano dunque il più alto traguardo raggiunto dalla città medievale italiana nell'espletamento della sua «funzione urbana», quale somma delle sue originarie «funzioni elementari» portate, sotto la spinta dell'incremento demografico e di una salda direzione politica, al maggior grado di intensità e di complicazione. Nel trapasso dall'età precomunale a quella comunale la città diventa così non solo il punto centrale ma la forza trainante dell'intero sistema che le è tributario dei servizi essenziali: le funzioni di ogni singola città, in definitiva, non si limitano alla fruizione degli abitanti compresi nelle mura, ma diventano, per un verso, indispensabili per l'esistenza dell'intero territorio che gravita su di essa e, per un altro, si espandono geograficamente, creando una serie di più ampie aree di influenza (area culturale, area di mercato), variamente sovrapposte e intersecatisi, che danno vita a un nuovo «sistema di città» dalle dimensioni europee.

Nota bibliografica

1. Sul problema della «funzione urbana» e delle funzioni elementari della città cfr. la nota bibliografica della prefazione, in particolare Weber, Lopez, Sjoberg e Roncayolo. Sulla «centralità» urbana delle città italiane nel Medioevo, A. HAVERKAMP, Das Zentralitätsgefüge Mailands im hohen Mittelalter, in E. MEYNEN (a cura di), Zentralität als Problem der mittelalterlichen Städtgeschichtsforschung, Köln-Wien, Böhlau, 1979.

 

2. Sui problemi di difesa cittadina e di organizzazione militare mancano opere di sintesi; indicazioni si ritrovano in singoli articoli o all'interno di lavori di carattere più generale. Per l'alto Medioevo cfr., ad esempio, P. M. CONTI, Limiti urbani ed organizzazione difensiva nell'Italia tardo-antica e medievale, in Storiografia e storia. Studi in onore di E. Dupré Theseider, II, Roma, Bulzoni, 1974; G. S. SCHMIEDT, Città e fortificazioni nei rilievi aerofotografici, in Storia d'Italia, V: I documenti, Torino, Einaudi, 1973; cfr. anche Ordinamenti militari in Occidente nell'alto Medioevo, Atti della XV Settimana di studio sull'alto Medioevo, Spoleto, Cisam, 1968. Per l'età comunale, oltre al vecchio ma informato E. RICOTTI, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino, 1845 (nuova ed. Roma, Ed. dell'Ariete, 1965), cfr. la parte dedicata all'esercito in D. WALEY, Le città-repubblica nell'Italia medievale, Milano, Il Saggiatore, 1969 (nuova ed. Torino, Einaudi, 1980), e la prima parte di C. ANCONA, Milizie e condottieri, in Storia d'Italia, V: I documenti cit.; contributi specifici sono P. PIERI, Alcune questioni sopra le fanterie in Italia nel periodo comunale, in «Rivista storica italiana», serie IV, 1933, 4; P. RASI, Exercitus Italicus e milizie cittadine, Padova, Cedam, 1937; P. PIERI, L'evoluzione delle milizie comunali italiane, in Scritti vari, Torino, Giappichelli, 1966; D. WALEY, The Army of the Florentine Republic from the XII to the XIV Century, in N. RUBINSTEIN, Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, London, Faber & Faber, 1968; W. M. BOWSKY, City and Contado: Military Relationship and Communal Bonds in XIV Century Siena, in A. MOLHO – A. TEDESCHI (a cura di), Renaissance Study in Honour of Hans Baron, Firenze, Sansoni, 1971; R. ROCCIA, L'organizzazione militare nella Torino del XIV secolo, in Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento, Torino, Comune di Torino, 1981. Sulle fonti militari del tempo del Barbarossa vedi P. BREZZI, Le fonti dei «Gesta Friderici imperatoris» di Ottone e Rahewino, in «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo», 1963, 75. Sui problemi più propriamente tecnico-militari cfr. le vecchie ma sempre utili opere generali: C. OMAN, A History of War in the Middle Age, New York, Burt Franklin, 1966; F. LOT, L'art militaire et les armées au Moyen Age, Paris, Payot, 1946.

 

3. A differenza di quanto accade per i problemi militari cittadini, la produzione storiografica intorno alla vita religiosa e culturale della città è abbondante: ci limiteremo quindi ai titoli più significativi. Sulle relazioni fra città e vescovo, S. MOCHI ONORY, Vescovi e città (secc. IV-VI), Bologna, Zanichelli, 1933; Vescovi e diocesi in Italia nel Medioevo (Atti del II Convegno di storia della chiesa in Italia), Padova, Antenore, 1964, di cui, in particolare, cfr. E. DUPRÉ THESEIDER, Vescovi e città nell'Italia precomunale; O. BERTOLINI, I vescovi del regnum Langobardorum al tempo dei Carolingi e C. VIOLANTE, I vescovi dell'Italia centro-settentrionale e lo sviluppo dell'economia monetaria; per gli aspetti politici dell'attività vescovile in città cfr. la nota bibliografica della Quarta sez.; sull'ordinamento diocesano e parrocchiale, P. SAMBIN, L'ordinamento parrocchiale di Padova nel Medioevo, Firenze, Olschki, 1941 e C. VIOLANTE, Primo contributo a una storia delle istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centro-settentrionale durante il Medioevo, in «Miscellanea Historiae Ecclesiasticae» V, Louvain, 1974, ora in G. ROSSETTI (a cura di), Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1977; C. VIOLANTE, Le strutture organizzative della cura d'anime nelle campagne dell'Italia centro-settentrionale (secc. V-X), in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell'alto Medioevo: espansione e resistenza, Atti della XXVIII Settimana di studio sull'alto medioevo, Spoleto, Cisam, 1982; sulla figura del santo patrono della città cfr. H. C. PEYER, Stadt und Stadtpatron in mittelalterlichen Italien, Zürich, Europa Verlag, 1955; A. M. ORSELLI, L'idea e il culto del santo patrono cittadino nella letteratura latina cristiana, Bologna, Zanichelli, 1965 (ora, parzialmente, anche in S. BOESCH GAJANO [a cura di], Agiografia altomedievale, Bologna, Il Mulino, 1976, utile in genere per tutti i problemi di agiografia cittadina); P. GOLINELLI, Culto dei santi e vita cittadina a Reggio Emilia, Modena, Aedes Muratoriana, 1980; sullo «spirito cittadino» della matura età comunale cfr. i contributi raccolti negli Atti dell'XI Convegno storico internazionale dell'Accademia Tudertina, La coscienza cittadina nei Comuni italiani del Duecento, Todi, 1973; sulla storiografia comunale, J. HEYDE, Medieval Descriptions of Cities, in «Bullettin of the John Rylands Library», 1966, 48; dello stesso autore, Società e politica nell'Italia medievale, Bologna, Il Mulino, 1977; G. MARTINI, Lo spirito cittadino e le origini della storiografia comunale lombarda, in C. D. FONSECA (a cura di), I problemi della civiltà comunale, Bergamo, Cariplo, 1971; G. ARNALDI, Il notaio- cronista e le cronache cittadine in Italia, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Firenze, Olschki, 1966; dello stesso autore, Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell'età di Ezzelino da Romano, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1963; G. GORNI, Il «Liber Pergaminus» di Mosè del Brolo, in «Studi medievali», serie III, XI, 1970; G. ARNALDI, Cronache con documenti, cronache «autentiche» e pubblica storiografia, in Fonti medievali e problematica storiografica, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1976; per una visione complessiva dell'«ideologia cittadina»: M. C. DE MATTEIS, Societas christiana e funzionalità ideologica della città in Italia: linee di uno sviluppo, in R. ELZE – G. FASOLI (a cura di), La città in Italia e in Germania nel Medioevo: cultura, istituzioni, vita religiosa, Bologna, Il Mulino, 1981; sulla presenza degli Ordini mendicanti nelle città europee occorre partire dalla grande inchiesta promossa da J. Le Goff: J. LE GOFF, Apostolat mendiant et fait urbain dans la France médiévale: l'implantation des ordres mendiants, in «Annales E.S.C.», XXII, 1968; dello stesso autore, Ordres mendiants et urbanisation dans la France médiévale, in «Annales E.S.C.», XXV, 1970; per l'Italia cfr. E. GUIDONI, Città e ordini mendicanti. Il ruolo dei conventi nella crescita e nella progettazione urbana del XIII e XIV secolo, in «Quaderni medievali», IV, 1977, ora in E. GUIDONI, La città dal Medioevo al Rinascimento, Bari, Laterza, 1981; sui rapporti città-università cfr. la raccolta di saggi di G. ARNALDI (a cura di), Le origini dell'Università, Bologna, Il Mulino, 1974, che comprende contributi di Haskins, Grundmann, Cencetti, Stelling-Michaud; J. VERGER, Le università del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1982 (1a ed. or. Paris, 1973).

 

4. Altrettanto vasta è la produzione storiografica relativa alla vita economica della città, sia all'interno di opere complessive di storia economica, sia come contributi specifici; anche in questo caso ci limiteremo ai titoli più significativi. Vecchia ma ancora utile è l'opera di A. SCHAUBE, Storia del commercio dei popoli latini nel Mediterraneo sino alla fine delle Crociate, Torino, Utet, 1915 (1a ed. or. München-Berlin, 1906); sintesi recenti sono C. M. CIPOLLA, Storia economica dell'Europa pre-industriale, Bologna, Il Mulino, 1974 (3a ed. riveduta 1980); R. S. LOPEZ, La rivoluzione commerciale dei Medioevo, Torino, Einaudi, 1975, e, per l'Italia, G. LUZZATTO, Breve storia economica dell'Italia medievale, Torino, Einaudi, 1958; P. JONES, La storia economica. Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XIV, in Storia d'Italia, II: Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1974, e, dello stesso autore, la raccolta di saggi Economia e società nell'Italia medievale, Torino, Einaudi, 1980. Sulla città alto-medievale cfr. F. CARLI, Il mercato nell'alto Medioevo, Padova, Cedam, 1934; C. VIOLANTE, La società milanese nell'età precomunale, Bad, Laterza, 1953; per l'età comunale, F. CARLI, Il mercato nell'età del comune, Padova, Cedam, 1936; E. FIUMI, Sui rapporti economici tra città e contado nell'età comunale, in «Archivio storico italiano», 1956; R. S. LOPEZ, L'espansione economica dei comuni europei, in FONSECA (a cura di), I problemi della civiltà comunale cit.; A SAPORI, Caratteri ed espansione dell'economia comunale italiana, Ibidem; L. A. KOTEL’NIKOVA, Mondo contadino e città in Italia dall'XI al XIV secolo, Bologna, Il Mulino, 1975; sulle corporazioni e l'organizzazione del lavoro, A. DOREN, Le arti fiorentine, Firenze, Sansoni, 1939; A. FANFANI, Storia del lavoro in Italia dalla fine del sec. XV agli inizi del XVIII, Milano, Giuffrè, 1942; P. S. LEICHT, Corporazioni romane e arti medievali, Torino, Einaudi, 1943; dello stesso autore, Operai, artigiani e agricoltori in Italia dal sec. VI al XVI, Milano, Giuffrè, 1950; V. RUTENBURG, Arti e corporazioni, in Storia d'Italia, V: I documenti cit.; R. GRECI, Forme di organizzazione dei lavoro nelle città italiane medievali tra età comunale e signorie, in ELZE – FASOLI (a cura di), Le città in Italia e Germania cit.; A. TALLONE, I paratici delle arti in Ivrea durante il Medioevo, in«Bollettino storico bibliografico subalpino», XI, 1906. Sulla mercatura: A. SAPORI, Le marchand italien du Moyen Age, Paris, 1952 (con abbondante bibliografia); dello stesso autore, Studi di storia economica (secc. XIII, XIV, XV), Firenze, Sansoni, 1955-67, 3 voll,; R. S. LOPEZ – I. W. RAYMOND, Medievale Trade in the Mediterranean World, New York, 1955; F. MELIS, Aspetti della vita economica medievale (Studi nell'archivio Datini di Prato), Siena, Monte dei Paschi, 1962; Y. RENOUARD, Gli uomini d'affari del Medioevo, Milano, Rizzoli, 1973; A. SAPORI, La mercatura medievale, Firenze, Sansoni, 1972; sulle singole città: R. S. LOPEZ, Aux origines du capitalisme génois, in «Annales», IX, 1937; dello stesso autore, Venezia e le grandi linee dell'espansione commerciale nel sec. XIII, in La civiltà veneziana del secolo di Marco Polo, Firenze, Sansoni, 1955; S. BORSARI, Per la storia del commercio veneziano col mondo bizantino nel XII secolo, in «Rivista storica italiana», LXXXVIII, 1976. Utili contributi si trovano negli Atti delle Settimane di studio organizzate dall'Istituto internazionale di storia economica «Francesco Datini» di Prato.

 

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2005