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Didattica > Fonti > La società urbana nell’Italia comunale > IV, Introduzione

Fonti

La società urbana nell’Italia comunale (secoli XI-XIV)

a cura di Renato Bordone

© 1984-2005 – Renato Bordone


Sezione IV – La struttura politico-sociale

0. Introduzione

Abbiamo finora considerato la città medievale italiana come il punto centrale di un sistema gravitante su di essa nella prospettiva di un progressivo sviluppo, realizzato nell'arco dei secoli che vanno dall'VIII al XIV, delle sue funzioni peculiari – militare, religioso-culturale, economica – nei confronti degli abitanti di un territorio circostante sui quali esercita una costante attrazione. L'incremento della popolazione, il complicarsi e l'articolarsi delle attività al suo interno e infine il modellarsi urbanistico secondo forme legate alla sua composizione sociale sono prova della particolare condizione in cui vivono gli abitanti della città e che consente loro di esercitare un'efficace azione «politica» nei confronti dell'esterno, con intensità diversa a seconda delle specifiche situazioni.

Ciò che occorre ora rilevare è proprio l'aspetto «politico» che manifestano le popolazioni urbane, in maniera molto maggiore di quelle rurali, in quanto la città è il luogo privilegiato per la circolazione delle idee e per la formazione di élites miste, concentrate in area ristretta anche se patrimonialmente presenti nella campagna circostante: l'equilibrio fra emergenza sociale e convivenza pacifica – equilibrio difficile, costantemente in pericolo – diventa qui elemento essenziale di sopravvivenza, esigenza «politica» di buon funzionamento dell'intero organismo e stimolo a una precoce maturazione degli abitanti che, con il tempo, raggiungeranno l'autogoverno. Il che non significa sovrapporre i due concetti di «città» e di «comune», così da confonderli e usarli in modo indifferenziato – pericolo denunciato già da Caggese –, poiché il comune cittadino non è che un aspetto, anche se il più clamoroso, della «vocazione politica» della città, una vocazione che è implicita nel ruolo che la città svolge nella storia italiana per la sua centralità nei confronti del territorio e per la presenza al suo interno di gruppi sociali che contribuiscono a realizzare tale centralità per trame vantaggio, anche quando non detengono (ancora) forme ufficiali di governo.


1. Nel momento traumatico dell'invasione longobarda che segnò in Italia la rottura con il passato «romano» della sua storia, fu probabilmente la funzione militare-difensiva esercitata dalle vecchie città racchiuse all'interno delle mura a orientare i capi dei singoli gruppi di spedizione verso l'insediamento cittadino: dopo la morte di Clefi, più di trenta duchi, secondo Paolo Diacono, dominarono senza un capo comune altrettanti territori; ciascuno di essi governava una città, divenuta sede ducale, e tale, presumibilmente rimasta anche dopo la restaurazione del potere regio (doc. 1). Accanto al duca, molto spesso, nella città continuavano a vivere e a funzionare i vescovi – l'interruzione nella successione non fu un fatto generale – e il clero, come inquadramento civile e religioso della popolazione. Certo vi fu un profondo rimescolamento etnico e sociale della popolazione delle città passate sotto il dominio dei Longobardi. Non pochi arimanni, cioè liberi Longobardi, stabilitisi in città, adottarono presumibilmente un comportamento analogo a quello degli antichi residenti. Per quanto sia difficile, se non impossibile, stabilire come sia avvenuta l'integrazione fra cittadini di diversa origine etnica, alla metà dell'VIII secolo non era più l'appartenenza al popolo longobardo l'elemento socialmente distintivo: con l'editto di re Astolfo, infatti, la stratificazione in relazione agli obblighi militari viene effettuata su base censitaria e si articola in tre classi di possessori terrieri, ai quali vengono equiparate tre classi di mercanti (doc. 2).

Si tratta di una distinzione che consente di individuare anche all'interno della città categorie connesse con le funzioni svolte, ma stratificate a seconda delle possibilità economiche e non dell'appartenenza etnica: grandi possessori e grandi mercanti rappresentano lo strato superiore cittadino a cui seguono due strati di condizione più modesta, mentre più in basso, non considerati dall'editto, in quanto non militarmente utilizzabili, dovevano collocarsi gli infimi. La tendenza dei mercanti a investire parte del loro capitale nella terra finì per fare del possesso fondiario il connotato sociale prevalente. Ma accanto a possessori e mercanti in città vivono anche gli artigiani a cui si deve la fabbricazione dei manufatti necessari alla vita cittadina; nel periodo precedente l'invasione longobarda, la loro attività era rigidamente controllata dallo stato, che ne aveva imposto il raggruppamento in collegia, mentre per l'età carolingia sappiamo che dovevano determinati contributi alla camera regia (doc. 3). Si è a lungo discusso a questo proposito sulla continuità fra l'ordinamento romano e quello altomedievale: di sicuro si può affermare soltanto che certe professioni indispensabili alla vita cittadina conobbero un ininterrotto controllo da parte dell'autorità sotto forma di associazione forzosa.

La sostituzione politica realizzata dall'intervento franco con l'assunzione del regno d'Italia da parte di Carlomagno apparentemente non modificò l'assetto longobardo; da sede ducale la città si trasformò in sede comitale e nella maggior parte dei casi continuò a ospitare il rappresentante del potere pubblico esercitato sul territorio dipendente. Di fatto fu in età carolingia che nuovi criteri cominciarono ad affermarsi nelle città italiane, contribuendo a far assumere alla loro composizione sociale l'aspetto che avrebbero a lungo conservato. A differenza dell'invasione longobarda, il dominio dei Franchi si esercitò infatti con l'inserimento ad alto livello di funzionari franchi accompagnati da piccoli nuclei di fedeli che si insediarono prevalentemente nel territorio, ma anche in città. Conti, marchesi, visconti rappresentano il ceto dei dominatori, dotati di autorità politica, possesso fondiario e, di conseguenza, prestigio sociale: quando avvenne, il loro inserimento in città dovette provocare una ridistribuzione dei ruoli e la valutazione sociale dei cives si commisurò in larga parte sulla base delle relazioni intrecciate con i nuovi potenti.

Si andò così formando, da una parte, un gruppo di famiglie eminenti, talvolta di tradizione notarile, i cui membri si accaparrarono incarichi pubblici connessi con l'organizzazione urbana: furono i giudici o gli scabini, cioè esperti del diritto che affiancavano il conte nelle sue funzioni di presidente del tribunale e venivano scelti dai missi regii con il concorso del conte e del popolo dalla categoria dei proprietari fondiari. In tutti i casi, prerogative di questo genere, prestigiose in città in quanto connesse con l'esercizio del potere, tendevano a essere conservate, quasi patrimonializzate, all'interno dei singoli nuclei familiari, creando un'incipiente aristocrazia, ristretta ed esclusiva, in relazione diretta con la famiglia comitale o, come più spesso accadde in seguito, con quella del visconte, con il tempo radicata anche patrimonialmente in città.

Accanto al conte, ai suoi funzionari e alla sua clientela vassallatica, un'importanza ancor maggiore di quanto non avesse rivestito in età longobarda andava intanto assumendo in città la figura del vescovo, capo della chiesa locale e depositario dell'ingente patrimonio di essa: proprio la consistenza patrimoniale doveva in più occasioni suscitare gli appetiti degli ufficiali pubblici che talvolta non resistevano alla tentazione di estendere anche sui beni del vescovo l'esercizio del loro potere. Ciò provocava le lamentele dei vescovi che ricorrevano all'autorità superiore per farsi rilasciare privilegi che sottraessero i beni della chiesa alle mire dei laici, ma nel fare ciò spesso il patrimonio della chiesa e i suoi dipendenti sfuggivano del tutto a ogni controllo pubblico, ritagliando dal territorio del comitato ampie zone immuni (doc. 4). Si aggiunga a tale potere patrimoniale e signorile l'esistenza attorno al vescovo di un organizzato staff di funzionari vescovili e di vassalli e si comprenderà come in città, sede abituale del vescovo, la sua presenza rappresentasse una pericolosa concorrenza per il conte laico.

Come collaboravano con l'autorità laica, trovando in tale collaborazione gli spazi per l'affermazione sociale, così le stesse famiglie – e spesso gli stessi personaggi – del ceto superiore cittadino ben presto si orientarono verso la potenza vescovile, o legandosi alla chiesa con vincoli vassallatici, o entrando a far parte dell'amministrazione vescovile. Quando e dove l'autorità del conte venne poi meno, il trapasso a un controllo sempre maggiore da parte del vescovo fu quasi sempre inevitabile, grazie alla continuità del gruppo dirigente cittadino che lo rappresentava. Abbiamo già visto come nel 904 al vescovo di Bergamo il re Berengario conceda il restauro delle mura, da realizzare di comune accordo con i suoi concives (cfr. Prima sez., doc. 2), e anzi a Pavia, in una situazione analoga, appaiono direttamente i cittadini come autori della distruzione di edifici nella città al fine di utilizzare il materiale recuperato per la ricostruzione delle mura e la difesa della città, minacciata da un'invasione di Ungheri (doc. 5). Come è stato rilevato da Giovanni Tabacco, anche se probabilmente non è mancata la direzione del vescovo, in questo caso la collettività, direttamente impegnata nell'azione, è protagonista, «qualunque sia l'organo [… ] intorno a cui abbia operato»; una collettività espressa dai suoi maggiorenti, in grado dunque di agire con un certo grado di autonomia organizzativa. Un tipo di organizzazione cittadina più chiaramente si manifesta nel 945: proprio al «conventus civium» delle tre città di Mantova, Verona e Brescia il re Lotario II affida infatti il controllo sul peso della moneta battuta dalla zecca vescovile di Mantova, riconoscendo dunque ai gruppi eminenti cittadini la competenza e l'autorità di esercitare un tipo di attività che prevede un notevole sviluppo della tecnica finanziaria (doc. 6).

Proprio la presenza nelle città dell'Italia settentrionale di una popolazione composita e di un ceto eminente misto consente alla collettività cittadina la concentrazione di una gamma di competenze non certo rintracciabili nelle campagne. Esperti del diritto (scabini, giudici), esperti del commercio e della finanza (mercanti, monetieri), come avevano garantito il buon funzionamento tecnico del governo comitale, così sono ora il supporto dell'autorità vescovile e i vescovi stessi, sollecitati da queste categorie, fungeranno da tramite con l'autorità centrale per far loro riconoscere particolari benefici, come nel caso di Asti, dove nel 992 l'imperatore concede al vescovo che i «negotiatores sue civitatis» abbiano la «licentia negotiandi», cioè la libertà di svolgere i loro commerci in qualunque luogo e senza l'opposizione di nessuno (doc. 7).

Ancora più esteso socialmente appare il privilegio rilasciato pochi anni dopo (996) dallo stesso imperatore Ottone III agli «omnes cives Cremonenses liberos divites ac pauperes»: accogliendoli sotto la sua protezione, affinché si conservino «liberi et securi in sua civitate ac tuti et defensi», concede loro l'uso delle acque e dei pascoli e commina una pena pecuniaria da pagarsi dai contravventori per metà alla camera imperiale e per metà agli «hominibus Cremonensibus» (doc. 8). Né ha importanza rilevare come di fatto l'imperatore due mesi dopo revochi le concessioni, poiché erano state strappate con l'inganno a discapito del vescovo il quale era in possesso di diplomi precedenti che gli confermavano i diritti da Ottone III concessi invece ai cives. Ciò che preme sottolineare è la piena consapevolezza, già alla fine del X secolo, da parte del ceto eminente cittadino che ha richiesto il diploma, di pensare la collettività urbana come un corpo unico e omogeneo, fondato sulla libertà personale e sulla comune residenza in città, ancorché articolato in strati economico-sociali rappresentati dai divites e dai pauperes.

In una prospettiva di questo genere l'assunzione dei poteri politici da parte del vescovo riveste un particolare significato. Se è vero infatti, come abbiamo detto, che per un verso tale assunzione fu graduale per la presenza costante, ai livelli intermedi e nevralgici, delle medesime persone, è vero altresì che il vescovo non si pone propriamente né come «signore» della città, al modo in cui lo diventa, grazie anche alle conferme imperiali sul patrimonio extraurbano, nei castelli della chiesa, né come «funzionario» regio alla maniera del conte, bensì appare garante del funzionamento pacifico della città, al servizio degli interessi collettivi, spinto ad assumere tale carattere dal «modo di essere» dei suoi concittadini, pari a lui per libertà personale, capaci di corresponsabilità politiche e per questo spontaneamente disposti a far capo al personaggio di massimo prestigio religioso e sociale con cui collaborare.

Il regno, dal canto suo, nelle difficoltà in cui si dibatte per mantenere il controllo sulle eterogenee forme di potere che si stanno ovunque manifestando, trova utile riconoscere uno stato di fatto che tramite il collaudato organismo ecclesiastico mantiene in efficienza l'inquadramento e la produttività delle popolazioni cittadine e, pur senza imperniare sui vescovi un deliberato disegno politico, ne favorisce lo sviluppo, favorendo in tal modo lo sviluppo dei poteri della città. Tutti i diplomi ottoniani – portando a compimento un processo che, come abbiamo visto nel caso di Bergamo, era già in atto al tempo di Berengario – non solo riconoscono le funzioni amministrative e commerciali della città con la concessione al vescovo del districtus e del mercatus, ma, rispetto al passato, fanno qualcosa di giuridicamente nuovo: riconoscono un'area di fruizione suburbana, la separano dal resto del comitato e la sottopongono alle dirette dipendenze della città. Così abbiamo visto per Parma (Prima sez., doc. 4) e per Asti (doc. 7), per citare esempi in cui è specificato il territorio su cui si esercita il potere giurisdizionale della città, ma l'elenco potrebbe continuare per tutte le città in cui i vescovi hanno ottenuto privilegi imperiali e non solo per quelle: anche dove il vescovo non ha ricevuto diplomi, come a Milano e a Genova, si va tuttavia creando una base territoriale extraurbana strettamente legata alla città, dove i cittadini hanno i loro possessi e da cui provengono le fonti di sostentamento della popolazione urbana.


2. Nel secolo successivo lo sviluppo economico della città e l'attrazione che esercita sul territorio su di essa gravitante provoca l'incremento demografico e urbanistico che abbiamo in precedenza considerato: dal punto di vista sociale ciò significa un complicarsi delle componenti e spesso una esplosione di conflittualità fra i gruppi. Il processo non è riconducibile a uno schema uguale per tutte le città, ma appare strettamente legato alla particolare composizione sociale di ciascuna di esse e ai rapporti che in ognuna esistono fra i gruppi al loro interno e nei confronti dell'autorità laica o vescovile che controlla la città, anche se l'esito, sul piano istituzionale, risulterà essere in definitiva analogo.

Il ceto eminente che abbiamo individuato nel X secolo può in molti casi subire un apporto determinante da parte di quella categoria di derivazione franca rappresentata dai vassalli dei conti e dei vescovi, potenti in campagna e dotati di mezzi militari per imporsi anche in città; l'inserimento urbano dei vassalli maggiori avviene molto precocemente, ad esempio, nel caso di Milano, coinvolgendo la popolazione cittadina nel più generale conflitto che nella prima metà dell'XI secolo vede impegnati l'arcivescovo e i due livelli della sua clientela: significativa, per quanto fantasiosa, appare a questo proposito la pagina di Landolfo Seniore dedicata all'origine delle discordie milanesi, in cui tende a contrapporre alla classe feudale, divenuta oppressiva delle libertà cittadine, il populus originario formato indiscriminatamente di mercanti, agricoltori, aratori e bifolchi (doc. 9). La situazione era certo più complessa, né la popolazione che si ribella ai milites è simile a quella vivente nella mitica età «ducale» del secolo precedente, ma appare in ogni caso chiara l'idea di un apporto esterno, di una trasformazione nel tessuto sociale avvenuta con i conflitti fra feudalità e cittadinanza. Alla metà dell'XI secolo, quando la lotta per le investiture contribuirà a stringere ulteriori solidarietà all'interno della cittadinanza, il ceto eminente appare ormai articolato in modo sempre più stabile nei tre ordines rappresentati da capitanei, valvassori – componenti feudali – e cives non legati da vincoli vassallatici: del 1067 è infatti una costituzione papale relativa alla lotta contro la pratica della simonia e del concubinato dei preti che prevede multe proporzionali ai possessori di chiese private che contravvengano alle disposizioni, elencando nell'ordine i capitanei, i valvassori, i negotiatores e «reliqui» non meglio specificati, individuabili, secondo Cinzio Violante, negli artigiani, nei iudices e nei notai che con i mercanti formano il vasto gruppo genericamente denominato cives (doc. 10).

Se l'attività militare contrassegnava lo stile di vita del gruppo vassallatico, ciò non significa che il resto della popolazione cittadina fosse inerme, per la stessa funzione militare che la città esercita di per sé con le mura e con i servizi di difesa e di offesa connessi. Questa attitudine, in fondo tradizionale, legata alla stessa libertà dei cittadini si coglie con chiarezza nelle turbolenze di questo periodo che caratterizzano tanto i contrasti sociali quanto i dissidi con il vescovo o con i rappresentanti imperiali. Città come Cremona verso il 1037 sanno, seppur per breve tempo, sottrarsi al controllo dell'autorità politica, organizzarsi militarmente, intraprendere operazioni offensive, distruggere palazzi, detenere prigionieri, come ci informano i diplomi imperiali (doc. 11). Sono in questo caso quei «cives divites ac pauperes» ai quali sembra ancora mancare l'apporto della feudalità vescovile che entrerà soltanto più tardi a far parte della cittadinanza, fino a esserne integrata al punto che nel 1098 i milites cremonesi di rango superiore saranno indifferentemente chiamati nel medesimo contesto ora «capitanei ecclesie» ora «capitanei civitatis» (doc. 12).

Altrove, invece, l'apporto feudale appare avvenire più tardivamente o in modo meno determinante o, ancora, può anche non avvenire affatto e la cittadinanza rimane in tal modo senza componenti vassallatiche: a Parma, ad esempio, soltanto verso il 1119-20, secondo Reinhold Schumann, i milites si integrano con i cives, che già sono in grado avanzato di organizzazione autonoma; a Mantova, come abbiamo visto in precedenza, sono gli arimanni di tradizione cittadina, cioè i liberi possessori che conservano ancora l'antico nome di ascendenza longobarda, a farsi riconoscere nel corso dell'XI secolo il godimento collettivo dell'area suburbana (Prima sez., doc. 5); ad Asti l'iniziativa tendente all'autogoverno muove dal ceto mercantile ed esclude per lungo tempo ogni intromissione feudale; a Genova e a Pisa, città legate al commercio marittimo, la classe dirigente appare mista, formata da possessori, vassalli della chiesa e famiglie di antichi funzionari pubblici, tutti però interessati alla comune attività mercantile e armatoriale.

L'elemento feudale nelle città dell'Italia settentrionale, in conclusione, non è che una componente, laddove sia presente in precedenza o si inserisca in seguito all'attrazione esercitata dal centro, di quella matura e intraprendente classe emergente cittadina che la corresponsabilità politica assunta nel corso del tempo con la collaborazione al regime vescovile ha reso in grado, sul finire dell'XI secolo, di esprimersi ormai con autonomia sia nei confronti del vescovo sia in quelli del regno e dei suoi rappresentanti. Un'autonomia cittadina, si badi, che formalmente non assume il significato di rottura con il passato, ma che anzi di esso utilizza gli strumenti per affermare il suo carattere pubblico, della stessa sostanza del potere regio, affiancandosi e poi sostituendosi gradatamente all'autorità preesistente.

Così nel caso di Pisa del 1081 Enrico IV riconosce ai cittadini le «consuetudines de mari» che si erano andate sviluppando in città e si impegna a non inviare alcun marchese in Tuscia – cioè a non creare funzionari pubblici – senza il consenso di dodici uomini eletti «in colloquio facto sonantibus campanibus», espressione questa che chiaramente indica l'embrione delle strutture e dei rituali tipici del nuovo ente cittadino (doc. 13). Pochi anni più tardi, nel 1095, ad Asti compaiono dieci cives, indicati con il nome di consules che agiscono a nome dell'intera comunità cittadina e ricevono in beneficio dal vescovo un'importante fortezza suburbana (doc. 14), riconoscendosi con tale atto come vassalli della chiesa: in questo caso – significativo per l'assenza di precedenti legami personali fra ciascun console e il vescovo – appare con evidenza che le due parti trovano nella sottomissione vassallatica dei rappresentanti della città una sistemazione formale di compromesso che consenta per un verso al vescovo di presentarsi nella sua tradizionale funzione di vertice cittadino e al nascente comune, per un altro, di essere riconosciuto come ente rappresentativo della collettività, ancorché sottomesso in apparenza all'autorità vescovile allo stesso modo della clientela vassallatica del contado.

In un noto passo di Landolfo Iuniore si racconta che in occasione di una grande assemblea lombarda nel 1117 furono erette a Milano due tribune in cui presero posto l'arcivescovo e il clero da una parte e i consoli e gli esperti cittadini del diritto dall'altra (doc. 15): distinti fisicamente dalla parte della chiesa, i rappresentanti del comune compaiono tuttavia nel testo indifferentemente anche come consoli dell'arcivescovo, a sottolineare quell'incertezza istituzionale dei primi tempi, in cui come già a Cremona nel 1098, l'immagine tradizionale del superiore coordinamento vescovile continua a sopravvivere nonostante l'esistenza di una distinta classe dirigente laica che progressivamente emarginerà il vescovo dalla gestione politica della città.

Con la comparsa dei consoli – che nell'arco di mezzo secolo si diffondono in numerose città dell'Italia centro-settentrionale (Pisa 1085, Asti 1095, Milano 1097, Arezzo 1098, Genova 1099, Pistoia 1105, Lucca 1115, Bergamo 1117, Bologna 1123, Modena 1135, Parma 1149) – ci troviamo in realtà di fronte a una magistratura del tutto nuova che – anche se originariamente provvisoria – appare ben diversa da quelle che possiamo definire «commissioni» di maggiorenti (boni homines), di volta in volta convocate dal vescovo per affrontare problemi singoli: i consoli infatti sono eletti «a cuncto populo» e prestano un giuramento con cui si impegnano a tutelare l'onore della città e a salvaguardarne la pace, secondo quanto compare in un «Breve» genovese del 1157 (doc. 16). Si tratta dunque dell'assunzione in proprio da parte della collettività di quell'elemento pubblico che la città racchiude in sé e che riguarda le sue componenti essenziali: il territorio e la popolazione.

È stato infatti rilevato recentemente da Ottavio Banti come il termine «comune» nel significato oggi corrente non venga mai usato dalle fonti delle origini, che ricorrono invece di norma ai termini civitas e populus, intendendo con essi la realtà demica e territoriale che la città appunto rappresenta. Troviamo così da una parte una popolazione intesa nel suo complesso, nonostante le articolazioni che socialmente presenta: essa si esprime nell'assemblea generale che elegge i consoli e ne riconosce l'autorità giurisdizionale e militare. D'altra parte troviamo un territorio che non coincide soltanto con la cerchia delle mura, poiché ha ereditato dal regime precedente – dove il vescovo abbia ottenuto il riconoscimento o comunque il controllo del distretto – l'intera area extraurbana circostante su cui si esercita l'attività economica e giurisdizionale dei cittadini.

Tale processo non avviene, naturalmente, in maniera omogenea per tutte le città e il controllo comunale si realizza tramite accordi e patteggiamenti con l'autorità vescovile, che spesso continua a conservare a lungo residui di diritti più antichi. A Ivrea, per esempio, soltanto nel 1200 il comune e il vescovo raggiungono una transazione relativa ai beni comuni della città ricorrendo a forme di investitura collettiva (doc. 17); a Pisa, come in altre città, nel periodo precedente al 1153 era appannaggio della famiglia dei Visconti – cioè dei discendenti del funzionario comitale che ne avevano patrimonializzato gli incarichi e i proventi – la riscossione dai cittadini dei diritti di ripaggio e di uso delle acque, nonché, come abbiamo visto per Genova (Seconda sez., doc. 29), di una tassa sull'esercizio del commercio e dell'artigianato e di altri introiti di origine pubblica: ma in quell'anno i consoli del comune stabiliscono, con l'approvazione dell'assemblea popolare, che tutto ciò passi «iure publico» alle dipendenze dirette del comune e che tale ordinamento venga solennemente giurato dai consoli che si succederanno nel governo della città (doc. 18).

L'obiettivo del comune cittadino italiano dunque appare chiaramente quello di assumere il completo controllo politico-amministrativo della città, superando quella dispersione di diritti «pubblici» che anche all'interno della civitas, sebbene in misura minore che nelle campagne, si era andata verificando e rischiava di pregiudicare il carattere interpersonale e territoriale del nuovo istituto. Un carattere che si va chiarendo con il complicarsi e l'articolarsi della burocrazia comunale, intesa a intervenire in ogni occasione della vita cittadina, provvedendo alle necessità degli abitanti: nell'arco di mezzo secolo circa, l'amministrazione originariamente rappresentata dai soli consoli tende a individuare precisi ambiti di attività, specializzando in essi i suoi addetti. Nel 1162 un comune importante come Pisa aveva un numero elevatissimo di funzionari, come si vede dal «Breve» dei consoli, coprendo, si può dire, l'intero ambito della vita cittadina (doc. 19). Il «Breve» – che è documento consueto della normativa dei primi tempi del comune – consiste in un giuramento che i consoli eletti prestavano al momento di entrare nella loro carica annuale; con esso si impegnavano a difendere in pace e in guerra «honor et salus civitatis» e di amministrare la giustizia secondo le richieste dei cittadini. A Pisa i consoli si impegnano a eleggere tre giudici e cinque provvisores, fra i quali un legis peritus, tre treguarii, due camerari, tre incisores, due monete probatores e quaranta senatores; da ciò è agevole inferire come le principali funzioni politico-amministrative siano rappresentate e svolte dall'ente cittadino: l'amministrazione della giustizia, il controllo dell'economia, l'ordine pubblico.

A proposito di quest'ultimo punto il «Breve» pisano è particolarmente illuminante sulle condizioni interne della città e sui rapporti che intercorrono fra gli elementi del ceto dirigente. In esso si prevede infatti che i consoli debbano intervenire in caso di scontri armati fra cittadini e che i funzionari a ciò preposti controllino che non venga edificata nessuna torre privata di altezza superiore a quanto stabilito, secondo una norma che già abbiamo considerato a proposito della morfologia urbana (Terza sez., doc. 22). Caratteristica infatti del ceto eminente cittadino di questo periodo è il raggruppamento in consorzi familiari identificabili nel comune possesso di una torre, di un palazzo, di una cappella o addirittura di un intero quartiere in cui la famiglia esercita la propria attività attorniata da dipendenti e clienti (doc. 20). Tutti i membri del consorzio sono legati da un giuramento di aiuto reciproco e hanno – come nel caso bolognese del 1196 – la disponibilità dell'uso della torre la cui proprietà rimane indivisa; il loro vincolo di unione si perpetua nei figli che, giunti all'età di quindici anni, sono obbligati a prestare giuramento; essi eleggono dei rappresentanti fra i quali sono scelti i rettori del consorzio, arbitri delle contese scoppiate all'interno e in grado di far rispettare le decisioni prese dall'intero consorzio. In altri casi, come in uno statuto di un consorzio fiorentino del XIV secolo, manca la presenza di una torre, ma il consorzio dispone di una cassa comune dalla quale si attinge il denaro necessario per le esigenze di ciascun membro. Come fa rilevare Daniel Waley, non risulta che quelli che giuravano tale patto fossero imparentati fra loro, ma il loro accordo illustra di quale specie fosse l'appoggio che i consorti si promettevano reciprocamente nelle necessità finanziarie e in occasione delle violenze che abitualmente occorrevano fra le consorterie cittadine.

L'attitudine allo scontro armato, il degenerare della rissa in un combattimento coinvolgente gruppi familiari militarmente attrezzati appare infatti una caratteristica ricorrente nella classe dirigente di tutte le città italiane durante il periodo comunale: guerre private come quella ricordata dai cronisti genovesi implicano la detenzione di strumenti bellici di offesa e di difesa da parte dei consorzi cittadini, che si mostrano perennemente preparati al confronto armato (doc. 21). Grandi famiglie di antica tradizione militare o di origine mercantile, dinastie di giudici o di signori inurbati dal contado ostentano così, da questo punto di vista, un modo di vivere «militare» comune, che tenderà a collocarli all'interno della città come un gruppo sociale caratterizzato dalla detenzione del potere politico e dalla perenne contesa fra i membri che aspirano a egemonizzarlo; un modo di vivere, dicevamo, il cui carattere «militare» non è che un aspetto di un più generale stile di vita che si suol definire «cavalleresco», intendendo indicare con tale aggettivo gli atteggiamenti legati alla ricchezza, all'educazione e alle attività che erano proprie del ceto signorile extraurbano.

Il problema della dignità cavalleresca o, in senso più lato, della «nobiltà» all'interno dei comuni cittadini è ancor oggi al centro di un vivace dibattito storiografico: risulta chiaro, in ogni modo, che fra XII e XIII secolo quel gruppo che ha originariamente esercitato il potere, composto da consorterie familiari in lotta fra loro, tende a prospettarsi come una classe di governo, ben distinta da quegli altri gruppi che dal governo sono stati finora esclusi, e trova nella milizia a cavallo, indispensabile all'esercito cittadino, un segno di distinzione sociale che si riallaccia concettualmente a una radicata tradizione di superiorità, qualunque sia stata l'origine delle singole famiglie e l'occasione di accesso a tale attività militare. Successivamente si cercherà, non senza fatica, di elaborare dei criteri in grado di circoscrivere giuridicamente una nobiltà che all'interno della città si era ormai di fatto affermata e tendeva a chiudersi in se stessa con la creazione di società esclusive, a ciò sollecitata dall'emergere di forze nuove (doc. 22).


3. L'immagine della partecipazione cittadina al governo durante il XII secolo che appare dalla documentazione va dunque ridimensionata alla luce delle considerazioni precedenti relative a una forte presenza, all'interno della collettività – «cunctus populus» formalmente coinvolto nell'ente comunale –, di un gruppo di punta, emergente per prestigio, per ricchezza, esclusivo non tanto per una prematura «chiusura» in senso sociale, ma piuttosto per assunzione privilegiata di elementi anche esterni dalle caratteristiche in qualche modo analoghe a quelle dei suoi componenti. La presenza di una classe di governo ben distinta dal resto della popolazione è rilevabile in ogni città comunale, anche se la sua composizione sociale varia a seconda delle situazioni particolari: ovunque, a essa sono riservati gli uffici che finiranno per essere assegnati con macchinosi sistemi elettorali, tendenti, in definitiva, a rimettere nelle mani di pochi le scelte politiche.

Laddove, come a Milano, la composizione sociale ha risentito più pesantemente della presenza di elementi inquadrati secondo legami vassallatico-feudali, la classe di governo si mostra articolata in tre ordines, già presenti, lo abbiamo visto, nella seconda metà dell'XI secolo, e i documenti comunali denunciano la partizione del consolato fra i rappresentanti dei capitanei, dei valvassori e del populus (doc. 23); altrove la distinzione interna al gruppo è meno chiara, poiché il peso minore degli istituti feudali tende a far emergere famiglie il cui prestigio si basa prevalentemente sull'esercizio di attività importanti (giudici, notai) o molto remunerative (grandi mercanti): si tratta in questo caso di cives non feudali che tuttavia, come rileva all'inizio del XIII secolo il vescovo di Cremona, sono ormai strutturati in clan familiari a imitazione dei «nobili», anche se permane ancora il ricordo della loro origine «popolare» (doc. 24). Occorre tuttavia estrema prudenza nel valutare il termine «populus», che assume nella realtà comunale significati diversi a seconda del tempo e delle situazioni in cui viene impiegato dalle fonti: già abbiamo visto infatti come possa significare alle origini l'insieme della cittadinanza indistintamente, oppure l'elemento emergente non feudale (a Milano nella medesima accezione si usa anche cives); vedremo ora il significato politico-sociale che va invece imponendosi nel corso del XIII secolo.

Abbiamo rilevato in precedenza (Terza sez., doc. 26) come all'interno della città sussistessero fin dalle origini articolazioni topografiche che facevano spesso capo a una chiesa urbana e raccoglievano la popolazione in vicinie o rioni, contrade o quartieri, unità di base per il reclutamento militare, prevalentemente dei pedites, e per la partecipazione alla vita civile: i residenti in ciascuno di tali raggruppamenti urbani avevano fra loro un tipo di solidarietà «locale» che non si identificava immediatamente con la solidarietà dell'intera collettività cittadina rappresentata dall'ente comunale, ma era caratterizzata da una precisa coscienza di gruppo, talvolta in concorrenza con gli altri raggruppamenti topografici. Con lo sviluppo urbano, strati sempre più vasti della popolazione vanno assumendo una consistenza sociale che si manifesta da una parte in un più saldo consolidamento dei raggruppamenti rionali orientati verso un autonomo inquadramento militare, e dall'altra in una più precisa organizzazione economica dello svolgimento delle attività artigianali: benché alcune forme di controllo sulle attività essenziali alla sopravvivenza, come abbiamo detto, siano continuate sotto ogni regime politico sperimentato dalla città, è infatti oggi opinione comune che la maggioranza delle professioni si siano riunite in questo periodo in associazioni spontanee, modellandosi sull'organizzazione politica comunale, per provvedere all'acquisto di materie prime e per disciplinare la produzione e la concorrenza (Seconda sez., doc. 31).

Mentre l'egemonia politica è detenuta dai clan potenti in perenne contrasto fra loro, non mancano dunque da parte dei gruppi esclusi dal governo forme di aggregazione e di associazione demotopografiche ed economiche che, imitando le strutture organizzative dell'ente maggiore, saranno in seguito in grado di esprimere il loro peso politico, coordinandosi in un organismo di dimensioni cittadine e a base prevalentemente di classe, noto ovunque con il nome di populus.

L'endemica violenza della turbolenta classe dirigente, attestata dai cronisti, operante con il sistema della guerra privata fra consorterie – con tutti i rischi che comportava alla stabilità del comune – aveva d'altra parte contribuito a provocare al suo interno la trasformazione istituzionale realizzata con l'instaurazione del podestà, come, sia pur semplificando la situazione, racconta un cronista genovese (doc. 25), ma l'esigenza di una maggiore partecipazione politica, unico mezzo efficace per controllare l'aristocrazia e indirizzare il governo secondo gli interessi anche degli altri gruppi, fece confluire le organizzazioni professionali e le associazioni militari rionali, che esercitavano una funzione difensiva nei confronti delle violenze dei clan aristocratici, verso la costituzione di una precisa struttura di parte capace di operare sul piano dello scontro politico e, all'occorrenza, di quello fisico, con magistrature proprie e concorrenziali (doc. 26).

Il populus, inteso in questo significato specifico, all'inizio durò una certa fatica ad affermarsi come organismo unitario della parte popolare. Soltanto in un secondo momento, di norma, la societas populi tende a sostituire nel ruolo politico le numerose altre societates popolari che in essa confluiscono: sorge allora un «consiglio di popolo» con propri rappresentanti in grado di eleggere un podestà o più comunemente un «capitano del popolo», affiancato da «anziani» o «priori» (Seconda sez., doc. 19).

Si è a lungo discusso e si continua a discutere sul significato e sulla natura del «popolo» duecentesco nella dialettica del gioco politico comunale italiano e non è mancato chi ha voluto vedere in esso, data la partecipazione ai suoi vertici di famiglie aristocratiche, un puro e semplice «partito» della lotta per l'egemonia scatenata all'interno dell'oligarchia cittadina, ma la presenza indubitata di nobili all'interno del popolo con incarichi di rilievo non altera di fatto l'orientamento prevalentemente di classe perseguito dalla politica antinobiliare del popolo, sostenuta dai consigli di formazione largamente artigiana e rionale; gli esiti stessi della lotta (disposizioni antimagnatizie, allargamento dei consigli comunali) sarebbero di per sé soli sufficienti a illustrarne i contenuti sociali. Che il popolo, da un canto, non rappresenti tutti i residenti, in una società come quella medievale appare fin troppo evidente: le fasce meno abbienti restano pur sempre escluse – a Padova gli statuti proibiscono la partecipazione all'elezione delle cariche pubbliche a braccianti, salariati agricoli e in genere a chi ha un imponibile inferiore alle 100 lire (doc. 27). D'altro canto, la presenza di elementi di famiglie eminenti ai vertici degli organismi popolari sembra denunciare piuttosto la mobilità di un'élite di «professionisti della politica» che nel diverso inserimento fra gli schieramenti in lotta cercano un'affermazione personale, volgendosi con spregiudicatezza in più direzioni contemporaneamente, come indica con chiarezza un documento astigiano del 1264, studiato da Enrico Artifoni, con cui un eminente membro della societas militum viene accolto in una società rionale (doc. 28) – che è al tempo stesso articolazione del più vasto organismo popolare – pur senza rinunciare a essere contemporaneamente presente nell'associazione dei nobili.

Se in questa ricerca multidirezionale di affermazione da parte dei membri degli antichi clan aristocratici si può scorgere una crisi della solidarietà originaria e un venir meno della solidità degli organismi consortili, non bisogna però dimenticare che dalle file dell'aristocrazia era uscita una vera categoria professionale di amministratori-giuristi, chiamati per la loro esperienza a ricoprire l'ufficio di podestà o di giudice del podestà in città diverse dalla propria e di conseguenza parecchi membri di famiglie eminenti erano ormai avvezzi a mutare periodicamente residenza e ad adattarsi a situazioni e orientamenti politici anche in contrasto fra loro: dalla medesima categoria, infatti, il più delle volte escono indifferentemente podestà comunali e capitani del popolo, richiesti dall'una e dall'altra parte per competenza e serietà professionale, ancorché non sempre si limitassero a essere semplici esecutori dei mandati del consiglio.

Sullo sfondo del reale conflitto fra popolo e nobiltà si intrecciano così interessi diversi, affermazioni personali, segni di mobilità sociale e di opportunità politica, che consigliano prudenza nell'assumere distinzioni troppo schematiche: già nel 1222 a Piacenza le forze sociali che gravitano attorno alle due parti appaiono infatti precocemente mescolate, secondo il trattato che prevede la suddivisione per metà degli uffici comunali fra «milites Placentie et illi de populo qui ad milites attendunt» da un lato e «populus Placentie et illi milites qui ad populum attendunt» dall'altro (doc. 29).

A parte le strategie del momento, il conflitto, specie nella fase di consolidata presenza popolare, avvertibile nella seconda metà del secolo, mette in luce l'emergere di famiglie originariamente non nobili ma molto vicine per stile di vita e per solidarietà di interessi alle schiatte già eminenti nel XII secolo, che rappresentavano indubbiamente un prestigioso modello da imitare. Esemplare è per Firenze il quadro che Dino Compagni traccia parlando dei Cerchi, ricchi mercanti di origine non nobile che avevano acquistato il palazzo dei conti Guidi e conducevano un tenore di vita sfarzoso (doc. 30); sono questi «grandi di popolo», ormai assimilabili ai magnati di ascendenza nobiliare a essere infatti con loro coinvolti nella dura reazione antimagnatizia scatenata a Firenze nel 1293 dai famosi Ordinamenti di giustizia, pur nati con chiaro intento di pacificazione sociale.

Sul finire del Duecento, dopo il breve regime rivoluzionario di forte impianto «classista» che aveva espresso gli Ordinamenti, torna a Firenze l'orientamento oligarchico fondato sui «priori», emanazione delle arti maggiori, mentre sussistono in forma non più concorrenziale residui di istituzioni precedenti quali il podestà comunale e il capitano del popolo. Ma, nonostante ciò che è stato definito l'«incipiente costruzione di un assetto propriamente statale», a Firenze scoppiano con rinnovato vigore le controversie di fazione fra le consorterie magnatizie, ora complicate dall'apporto di nuove famiglie «grandi».

Questo stato permanente di tensione e di conflitto fra nobiltà e popolo e fra gli stessi clan – spesso complicato da collegamenti intercittadini fra coalizioni di colore politico «guelfo» o «ghibellino» –, che caratterizza il clima sociale della città italiana medievale, è stato recentemente interpretato da David Herlihy in chiave di storia psicologica e sociale, individuando nell'elevato numero di giovani maschi non sposati, spesso senza padre e viziati dalla madre, una delle cause dell'aggressività della popolazione cittadina: se pure occorre prudenza nel valutare tali considerazioni – formulate specialmente per un periodo più tardo, il Quattrocento –, appare innegabile che in alcune pagine di Dino Compagni molti disordini, specie fra i Cerchi e i Donati, abbiano i giovani come principali protagonisti, o singolarmente o in «brigate», facili a riscaldarsi e a impugnare le armi (doc. 31). Ma sono soprattutto da accogliere le considerazioni di Herlihy relative alla presenza dei «troppo poveri» come fattore di disordine, anche se fino al Trecento non ci è dato di avvertirne in maniera rilevante la presenza in città; solo fra XII e XIV secolo infatti abbiamo a Firenze le tracce di una classe che è stata definita «preproletariato» in relazione alle avanzate forme di precapitalismo rappresentate dall'industria laniera: masse urbane impoverite dal sovrappopolamento erano presenti nei disordini provocati dalla carestia che abbiamo ricordato altrove (Prima sez., doc. 22) e veri e propri moti popolari scoppieranno nell'ambiente degli operai sottoposti.


4. Il clima di violenza endemica, d'altra parte, se pure alimentato da un'aggressività «naturale», era conseguenza, ma al tempo stesso causa, dell'impotenza delle istituzioni a costituirsi in strutture stabili, sollecitate com'erano dalle concorrenze dei gruppi di pressione. Eppure, a ben vedere, l'instabilità delle istituzioni, il carattere permanente di sperimentalità delle innovazioni politiche e amministrative, appare congeniale a una società dinamica come quella cittadina e, nonostante tutto, manifesta una fondamentale funzionalità per lo sviluppo economico della città: quasi paradossalmente, infatti, la città italiana conosce allora una fase di floridezza economica e di pienezza politica mai più raggiunta in seguito, legate certo alla particolare congiuntura del momento, ma anche alle strutture politico-amministrative «aperte» e funzionali in quel tipo di società proiettato prevalentemente sul commercio.

Instabilità istituzionale e continua sperimentazione – che già si scorgevano fin dalle origini in quella magistratura temporanea e occasionale che erano stati i primi consoli – si possono infatti riscontrare nelle varie fasi della storia comunale: nel variare del numero dei consoli e della durata del loro incarico, nelle trasformazioni a cui, sotto sollecitazioni diverse, andò soggetto il numero e la composizione dei consigli, nel ricorso a formule diverse e personalizzate per realizzare il controllo sul contado. Certo vi furono delle sopravvivenze consuetudinarie, anzi, molto spesso la normativa si creò per stratificazione di nuovi ordinamenti sovrapposti ad altri precedenti che non furono mai cassati, sicché gli statuti a noi pervenuti, molto spesso riformati nella successiva età signorile, lasciano scorgere l'intero sviluppo di determinati istituti, dal momento che, pur in prospettiva dinamica, il comune sentì molto presto l'esigenza di fissare le sue regole, di assumere atteggiamenti universalmente validi nei confronti delle principali esigenze cittadine.

Nell'assunzione del diritto di darsi liberamente delle norme vincolanti per tutti gli abitanti della città fu certo di stimolo non indifferente la presenza di Federico Barbarossa e la lunga contesa che lo oppose ai comuni, non tanto per le concessioni che questi ottennero a Costanza – dove, come è stato ancora recentemente ribadito da Antonio I. Pini, non fu loro concesso lo ius statuendi, ma soltanto riconosciuta la validità dei mores civitatis –, quanto per le circostanze che imposero alle città una maggiore coscienza delle proprie condizioni. La grande confederazione nota come Lega lombarda contribuì senz'altro ad avvicinare le diverse realtà cittadine e a favorire lo scambio proficuo di esperienze e la circolazione di modelli secondo un meccanismo che si ripeterà più volte nel corso della storia comunale.

Tre sono in particolare i punti su cui è opportuno soffermarsi nel trattato del 1168 qui riportato (doc. 32): il riconoscimento alle città consociate del proprio banno comunale e la conseguente possibilità di estradizione dei banniti, il divieto di imporre nuovi pedaggi nei confronti dei consociati, la coscienza dell'esistenza per ciascuna città di una propria giurisdizione territoriale. L'ultimo punto rappresenta la dimensione concreta e circoscritta («in suis terminis») su cui si esercita il diritto della città ad amministrare la giustizia e a prendere provvedimenti economici espresso dai due punti precedenti. Ritorna dunque in primo piano, ora caricato di maggiori valenze politiche, quell'aspetto di centralità della città nei confronti del territorio gravitante su di essa, che abbiamo più volte sottolineato: attrazione cittadina, aumento della popolazione, conseguenti esigenze di un approvvigionamento maggiore e necessità di sicurezza politica per rispondere a tali esigenze spingono ben presto il comune al di fuori degli angusti limiti del districtus di derivazione vescovile, portandolo a estendersi fin dove gli è possibile far sentire efficacemente la propria presenza.

Anche in quella che è nota come la «conquista del contado» il comune manifesta la consueta sperimentalità dei sistemi. L'obiettivo immediato era quello di raggiungere i confini della propria diocesi, secondo il principio per cui il territorio diocesano dipendeva dalla città, sede del vescovo; si fece poi strada nella riflessione dei giuristi comunali il principio della ricostituzione territoriale dell'antico comitatus, cioè della giurisdizione civile che aveva avuto nella città il suo capoluogo. Il principio della «comitatinanza» – come ha messo in rilievo il saggio fondamentale di Giovanni De Vergottini – divenne dunque il supporto ideologico per sottomettere il contado, ricorrendo, di volta in volta, a modi e a mezzi diversi, a seconda della resistenza che le forze in esso presenti opponevano: l'imposizione armata e l'acquisto in denaro furono due mezzi, molto diversi fra loro, per ottenere il medesimo scopo, come la stipulazione di un patto feudale e la concessione di cittadinanza furono due modi per rendere efficace il controllo cittadino.

L'uso della violenza fu forse meno diffuso di quanto comunemente non si pensi e spesso si inserì piuttosto nei conflitti di più vasto respiro che contrapponevano due comuni in concorrenza per l'egemonia sullo stesso territorio: così nei casi ricordati dai cronisti fiorentini per il XII secolo, in cui il comune impose con le armi il suo controllo, punendo i ribelli (doc. 33). Spesso furono gli stessi signori locali, bisognosi di liquidità, a vendere in parte o per intero i loro domini ai ricchi comuni cittadini (doc. 34). Altre volte, invece, i signori locali, per conservare ancora la pienezza dei diritti e al tempo stesso tutelarsi dalle mire comunali, facevano spontanea dedizione delle loro terre ai magistrati della città a patto di riaverle in feudo, usando dell'istituto noto come «feudo oblato», molto diffuso fra signori di grado diverso, che consentiva al donatore di continuare a esercitare le prerogative signorili e di ricevere aiuto in caso di bisogno dal suo senior, in cambio della disponibilità della fortezza e del giuramento di fedeltà vassallatica, come il caso di Asti qui riportato illustra (doc. 35). Usando di questo mezzo, il comune andava creandosi una clientela feudale analoga a quella dei maggiori signori territoriali, una clientela che, utile in caso di conflitto, contemporaneamente rappresentava un inquadramento, seppure indiretto, della popolazione residente nel contado.

Molto più vincolante dal punto di vista politico appare invece il ricorso al cittadinatico, a cui abbiamo in precedenza fatto riferimento (Prima sez., docc. 11-15): solo con la sua stipulazione, infatti, coloro che risiedono come homines o come domini nel contado entrano a far parte integrante della cittadinanza, sottoponendosi agli obblighi giuridici, militari ed economici comuni al resto dei cittadini, anche se poi, come si è visto negli esempi relativi a Siena, Asti e Alba, esiste tutta una graduazione di obblighi e diritti che si adeguano alle circostanze. Che in certe aree tuttavia il cittadinatico fosse lo strumento più utile ed efficace per la creazione di un'omogenea territorialità comunale è provato dal largo uso che ne viene fatto nei confronti proprio delle comunità rurali, preesistenti o ristrutturate dall'iniziativa comunale con la creazione di «borghi franchi» o «villenove», esempio di una deliberata pianificazione territoriale da parte dell'ente cittadino. Si prenda infatti il caso degli abitanti di alcuni villaggi – che costituiranno in seguito la «villanova» di Montegrosso, a sud di Asti – divenuti nel 1198 collettivamente «cives Astenses» (doc. 36): il comune li obbliga al pagamento delle imposte e al servizio militare come gli altri cittadini, in più richiede un censo annuo proporzionale alle loro condizioni, dal quale sono esentati se risiedono in città, e impone un magistrato scelto dal comune per l'amministrazione della giustizia, ma concede il diritto di appello al podestà cittadino.

In genere in Piemonte fra XII e XIII secolo lo sviluppo delle «villenove» crea un rapporto di quasi parità fra gli abitanti del contado che stipulano il cittadinatico e coloro che risiedono in città come «cives de origine civitatis», favorendo la creazione di un tessuto territoriale abbastanza omogeneo, anche se spesso interrotto da «isole» signorili costituite dal territorio dei vassalli o dei domini cittadini che continuano a esercitare giurisdizione personale sui loro dipendenti. Diversa appare invece la condizione dei «comitatini» in altre aree: ad Arezzo, ad esempio, gli uomini di Marzana che confermano la loro dipendenza dal comune cittadino si dichiarano soggetti alla piena e completa giurisdizione («merum et mixtum imperium et omnem iurisdictionem et speciem iurisdictionis») della città, obbedendo ai magistrati e contribuendo al pagamento delle imposte, senza essere riconosciuti giuridicamente come cives (doc. 37). Di fatto, la qualità di cives da parte degli abitanti del contado andò col tempo deteriorandosi anche dove era stata sancita da decisioni comunali, ma nel caso delle «villenove» restarono più a lungo privilegi amministrativi che consentivano una certa autonomia dalla città.

La sottomissione del contado – sia come spoliazione giurisdizionale degli antichi signori, sia come nuovo inquadramento delle popolazioni rurali – rappresentò in ogni caso un risultato duraturo dello sforzo di creazione territoriale messo in opera dalla città, perché gettò le basi di una nuova rete di circoscrizioni che, seppure con alterazioni, sopravvisse a lungo al declino delle autonomie cittadine.

La proiezione, al di fuori del limitato districtus, di quel banno e di quelle norme fiscali a cui facevano riferimento i passi del trattato della Lega lombarda imponeva certo una maggiore chiarezza normativa e una più salda stabilità costituzionale degli strumenti utilizzati per realizzarla: l'amministrazione della giustizia e una globale politica finanziaria furono dunque i due campi in cui la città dovette assumere dei provvedimenti efficaci, in grado di essere accettati e rispettati dalla più vasta collettività di cives e di comitatini.

Con l'avvento del podestà le funzioni originariamente svolte, come abbiamo visto, dai consoli di giustizia (o dei placiti) furono assunte dal nuovo magistrato e dai giudici del suo seguito, mentre si venivano precisando negli statuti sia la procedura processuale sia le pene precise da applicare ai contravventori; perciò un noto manuale dell'epoca, compilato per chi svolgeva questa attività, raccomandava al podestà: «quelli ordinamenti delle pene pienamente déi osservare però che contengono giustizia molto discreta», invitandolo dunque ad attenersi alle norme codificate, pur con spirito di misericordia verso la debolezza umana, ma col chiaro intento di applicare punizioni che fossero «asenpio a tutta gente» (doc. 38). L'elenco dei condannati, sia per reati di diritto civile sia per quelli di diritto criminale, è spesso conservato anche presso comuni minori e getta luce sull'attività dei giudici e sul tipo di infrazioni commesse, come nel caso relativo al comune di Alba che qui riportiamo (doc. 39).

Per quanto concerne l'estensione della giustizia cittadina sul contado, pur senza attenersi a una norma generale per tutti i comuni, di massima si operò una distinzione di competenze in base all'ammontare della pena prevista per la causa da dibattere: sotto una certa cifra erano infatti affidate ai rettori della comunità locale nominati dalla città, al di sopra di essa venivano giudicate dal podestà cittadino che si riservava in ogni caso la giurisdizione superiore e il diritto di appello.

L'altro aspetto, quello di una globale politica finanziaria, appare di formazione più lenta e complessa e non in tutti i comuni viene realizzato allo stesso modo, né in forma completamente soddisfacente. Se è infatti intuitivo che l'ente cittadino, ponendosi come somma del potere abbia dovuto contare fin dalle sue origini su di un cespite di entrate con le quali far fronte alle esigenze di governo, sia per le spese ordinarie sia per quelle straordinarie, non pare altrettanto semplice rintracciare un sistema omogeneo che ne garantisse stabilità e continuità in un mondo che aveva da secoli perduta la nozione di imposta diretta proporzionale al reddito.

La città, già prima dell'avvento del nuovo regime, conosceva bene il sistema delle imposte indirette applicate al commercio e al monopolio di certi prodotti e, anzi, la loro riscossione aveva rappresentato in gran parte il contenuto economico delle concessioni fatte dagli imperatori ai vescovi, ma, a differenza della campagna, dove era avvenuto un rapido sviluppo della signoria locale, non c'era stata quella generale estensione delle «bannalità» a ogni attività ed esigenza della collettività sottoposta: dazi e pedaggi riguardavano infatti il commercio proveniente dall'esterno, mentre le imposte sulla distribuzione delle merci colpivano piuttosto il produttore che non il consumatore. Coradie, telonei, bancatici erano poi stati spesso distribuiti dai vescovi e dai conti ai loro vassalli e collaboratori (Seconda sez., doc. 29) e il comune solo lentamente, come abbiamo visto, riuscì a impossessarsene: ciò nonostante, lo sviluppo economico dei cittadini, specie per i comuni che si fondavano essenzialmente sul commercio, favorì lo sviluppo dell'ente in cui si riconoscevano e la fiducia creata dalla sua affermazione politica faceva da garante per i loro traffici, al punto che fin dalla prima metà del XII secolo comuni come Genova e Asti ottennero dall'imperatore il diritto di battere moneta propria.

L'impianto delle zecche comunali, sorte ben presto per concessione o per imitazione, comportava delle solide disponibilità finanziarie e delle precise competenze tecniche che dimostrano il grado di sviluppo raggiunto, né mancavano, proprio a Genova, tempestivi provvedimenti per difendere la moneta cittadina da possibili (e probabili) contraffazioni, che comminavano ai colpevoli il taglio della mano, la confisca dei beni e l'esilio perpetuo (doc. 40).

Come per la moneta, così dell'unica imposta diretta generalizzata, di origine pubblica, il «fodro», il comune si impossessò ben presto: essa era in origine un contributo, legato agli spostamenti dell'imperatore, che nel corso dell'XI secolo si era trasformata in una quota fissa (26 denari) riscossa per l'imperatore da chi deteneva l'autorità locale; il comune la estese probabilmente a tutti i cittadini, lasciandole il carattere di prelievo straordinario e non annuale, differenziandola secondo criteri di generica capacità contributiva, e come tale compare in tutti i cittadinatici stipulati dai signori e dalle comunità locali che entrano a far parte della cittadinanza. Sul finire del XII secolo, tuttavia, col medesimo nome di «fodro» spesso si intende già un'imposta di tipo diverso, non più basata su una quota fissa o forfettaria, ma proporzionale al reddito reale o al capitale di ciascun contribuente secondo il sistema detto in seguito più correttamente di «estimo» o «allibramento» (doc. 41).

I funzionari comunali a ciò preposti dovevano infatti «stimare» l'ammontare delle possibilità economiche dei contribuenti sulla base dell'elenco dei beni mobili e immobili che i cittadini denunciavano, scrivendo accanto al nome la cifra dell'imponibile: in occasione delle «collette» veniva poi calcolata la quota di corresponsione rispetto a un'aliquota stabilita in percentuale, «per libram». Con lo sviluppo del sistema e la sua applicazione al più vasto territorio del contado sottomesso al comune, in molte città il semplice estimo fu in seguito sostituito da un ben più diffuso «catasto» in cui erano conservate e trascritte in un unico volume le dichiarazioni dei contribuenti, descrittive delle singole pezze coltivate, possedute, date o tenute in affitto, e dei beni mobili (in alcuni casi anche dei debiti e dei prestiti), a cui faceva seguito l'estimo delle singole voci e la somma totale dell'imponibile, calcolato dai funzionari.

Nonostante il perfezionamento tecnico raggiunto, il sistema delle collette basate sugli estimi e sui catasti non sempre era sufficiente a fornire alle finanze del comune grosse somme di denaro necessarie a far fronte alle improvvise esigenze, sicché, fin dal XII secolo, si pensò di ricorrere in questi casi a prestiti contratti con privati cittadini in grado di mettere a disposizione del comune un buon numero di contante: ciò avvenne eccezionalmente a Genova nel 1149 e a Venezia nel 1164, mentre già il «Breve» dei consoli di Pisa del 1162, di cui abbiamo parlato, prevedeva l'eventualità che i nuovi consoli imponessero ai cittadini una «data», cioè un'imposta diretta, o una «prestanza», cioè un prestito. Questi primi prestiti, fatti da famiglie facoltose, sono volontari e notevolmente remunerativi per l'alto interesse corrisposto; il comune, inoltre, a garanzia della restituzione impegna un bene pubblico o i proventi di un dazio; successivamente però i prestiti ebbero carattere obbligatorio, o «forzoso», e di norma non veniva più rimborsato il capitale, ma erano pagati annualmente gli interessi (doc. 42). In tal modo il comune creava l'istituto del «debito pubblico», costituito da un conto comune del debito (in seguito «Monte») in cui il nome del creditore veniva segnato, e del suo credito diventava garante il comune come ente pubblico, senza più alcun pegno. I buoni del Monte, infine, diventano titoli commerciabili, con un reddito fissato attorno al 5%, liberi da imposte e rappresentano una consueta forma di investimento senza rischi.

Prospettare un bilancio delle finanze di un comune medievale è impresa ardua e pressoché impossibile per l'incidenza rilevante che hanno in esso le spese straordinarie, di volta in volta diverse. Con l'aumentata burocrazia anche le spese ordinarie, rappresentate in prevalenza dagli stipendi dei funzionari, divennero alte, come si può ricavare dal capitolo degli statuti di Bologna qui riportato (doc. 43), e di conseguenza il comune fu costretto a moltiplicare le gabelle che ormai deteneva saldamente come ente pubblico, avendo rastrellato in suo favore le quote che in precedenza erano ancora nelle mani del vescovo o di privati. Un elenco relativo alle entrate di questo tipo conservato negli statuti di Bologna del 1288 ci illustra eloquentemente la varietà dei generi tassati in città e l'estensione al contado della riscossione delle gabelle: compaiono da una parte i redditi dei mulini, i dazi sul grano macinato, su quello venduto in piazza e alle singole porte, sul vino, sulla frutta, sulla verdura, sugli animali, sul sale, sui pesi e sulle misure, e dall'altra parte le somme forfettarie che annualmente, a titolo di gabella, pagano le singole comunità del contado (doc. 44).

Ma la stessa esigenza che aveva spinto il comune a richiedere l'immediata disponibilità di denaro liquido con il sistema dei prestiti lo costringeva a essere soltanto indirettamente l'esattore delle gabelle cittadine, poiché appariva molto più vantaggioso appaltare la riscossione delle gabelle a persone in grado di versare subito l'ammontare presunto degli introiti in cambio della pur redditizia, ma più diluita nel tempo, raccolta dei singoli pagamenti. Con la vendita delle gabelle e con il gettito dei prestiti e delle collette su allibramento – e c'è da dire che vi furono momenti e comuni in cui si preferì privilegiare ora un sistema ora l'altro ora adottarli contemporaneamente – il comune dispose di strumenti in grado di consentirgli l'introito di un capitale notevole che però, come abbiamo detto, veniva in gran parte assorbito dalle uscite straordinarie, fra le quali una voce rilevante era rappresentata dalle spese delle guerre che costantemente impegnavano i comuni nelle concorrenze con signori e comuni vicini o, durante le contrapposizioni di fazione, negli scontri fra coalizioni di più comuni partigiani.


Nel corso del Duecento, in definitiva, nonostante le contraddizioni interne, tutti i comuni, maggiori o minori, riescono a trovare un assetto amministrativo in grado di garantire un funzionamento normale della vita dei cittadini, consolidando quelle funzioni naturali della città nei confronti del contado e intervenendo a ogni livello dell'esistenza dei governati. E ciò, nonostante i profondi contrasti sociali e la fondamentale instabilità delle istituzioni politiche che non riusciranno mai ad armonizzarli: si direbbe cioè che amministrazione e politica viaggino su due piani paralleli e, mentre la seconda non trova quell'equilibrio in grado di esprimere una classe di governo che raccolga il consenso unanime, la prima, pur procedendo per via sperimentale e non certo estranea al confronto politico, riesce a produrre delle norme e delle leggi che l'intera cittadinanza accetta e che, nell'alternanza delle parti al governo, non subiscono alterazioni determinanti. La miglior prova sta forse nella conservazione dei medesimi apparati burocratici, certo, come si suol dire, «svuotati di significato politico», anche dopo il venir meno dell'autonomia cittadina, così come si ricava con chiarezza dagli statuti riformati nel Trecento dal signore cittadino. E queste strutture, senza dubbio di lunga durata, si possono considerare una genuina creazione della città comunale.

Di contro sta l'altro aspetto destabilizzante: l'inconciliabilità delle forze politiche che sotto forma di parti, societates, fazioni si giustappongono all'interno delle strutture amministrative senza mai fondersi, anzi portando alle estreme conseguenze la tensione interna. Si afferma allora per reazione la necessità dell'organizzazione di un potere più stabile, separato istituzionalmente dalle strutture sociali, capace di arrestare con autorità il processo di disgregazione della società cittadina. Solo l'affermarsi di oligarchie sempre più chiuse, l'emergere di un «signore» cittadino riescono ad attenuare e infine a sciogliere – come ha rilevato Chittolini – il «nesso, prima così stretto, fra dinamica sociale, scontro politico, evoluzione istituzionale». Ma quali conseguenze, ci chiediamo, ha sulla natura e sulla funzione della città un così radicale cambiamento di regime, il cui sviluppo esula ormai dai termini cronologici che ci siamo proposti?

L'inserimento delle città comunali in più ampi organismi territoriali sottoposti al signore le configurava certo in maniera diversa rispetto al periodo della loro completa autonomia, anche se già in precedenza, durante la lotta delle fazioni, erano sorte e tramontate effimere confederazioni di comuni, rette da alleanze intese a estendere il controllo su un territorio più vasto di quello dei singoli enti; tentativi che ben si inquadrano in quel clima di sperimentalità istituzionale che abbiamo più volte sottolineato, ma che sono ben diversi da un'unificazione politica sottoposta a un solo egemone. Certo vi fu in questo periodo una decadenza della classe politica cittadina e una crisi economica della città – le cui cause andrebbero però cercate forse più nella congiuntura generale che non nel mutamento di regime –, ma spesso il signore riuscì a sottoporre più durevolmente il distretto rurale alla città, intento mai riuscito completamente al comune, che anzi, negli ultimi tempi della sua autonomia vedeva disgregarsi il territorio sotto la spinta centrifuga dei contendenti. Se è vero infatti che con l'avvento di un ampio organismo territoriale i signori fecero più abbondantemente ricorso al rinnovato uso degli istituti feudali – tant'è che si parla di «rifeudalizzazione» anche dove sarebbe più corretto parlare di «nuova feudalizzazione» –, è altresì vero che molto spesso la città, diventando «capoluogo provinciale», consolida i suoi diritti sul contado, sul quale mantiene non solo la sua funzione primaria di centro economico, ma esercita prerogative giurisdizionali e amministrative non dissimili da quelle esercitate durante il periodo di autonomia, rese anzi più stabili proprio dall'autorità del principe.

L'impianto burocratico-amministrativo, ormai saldamente regolato dagli statuti cittadini, in definitiva, sopravvive alla crisi della libertà e denuncia la volontà di affermazione di una classe eminente della città che, per quanto limitata nelle sue espressioni politiche, continua a caratterizzarsi come tale nei confronti del resto del territorio, ribadendo quegli aspetti sociali e culturali, connessi con la tradizionale residenza urbana, che rappresentano i tratti inconfondibili della storia della città italiana.

Nota bibliografica

1. Sulle condizioni politico-sociali della città italiana nel periodo più antico cfr. i lavori di C. MENGOZZI, La città italiana nel Medioevo, Roma, Loescher, 1914; G. TABACCO – G. FASOLI – R. MANSELLI, La struttura sociale delle città italiane dal V al XII secolo, in Untersuchungen zur gesellschaftliche Struktur der mittelalterliche Städte in Europe, Konstanz, Sigmaringen, Thorbecke, 1966; C. G. MOR, Appunti sull'amministrazione cittadina in età longobarda, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, Cedam, 1975; P. M. CONTI, I «cives Lunenses» e la condizione cittadina nell'età longobarda, in «Archivio storico per le province parmensi», serie IV, XX, 1968. Per un inquadramento generale dei problemi relativi all'invasione longobarda: G. TABACCO, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino, Einaudi, 1979; sull'amministrazione in età carolingia: A. SOLMI, L'amministrazione del Regno italico nell'alto Medioevo, Pavia, Società pavese di storia patria, 1932; C. BRÜHL, Das Palatium von Pavia und die Honorantiae civitatis Papiae, in Atti del IV Congresso internazionale di studi sull'alto Medioevo, Spoleto, Cisam, 1969. Sui poteri politici dei vescovi: C. MANARESI, All'origine del potere dei vescovi sul territorio esterno delle città, in «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo», LVIII, 1944; G. DILCHER, Bischof und Stadtverfassung in Oberitalien, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», 81, 1964; dello stesso autore, Die Entstehung der lombardischen Stadtkommune, Aalen, Scientia Verlag, 1967; G. ROSSETTI, Formazioni e caratteri delle signorie di castello e dei poteri territoriali dei vescovi nella Langobardia del secolo X, in «Aevum», 49, 1975; C. G. MOR – H. SCHMIDINGER (a cura di), I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania, Bologna, Il Mulino, 1979 (in particolare il contributo di G. Tabacco, ora anche in appendice a TABACCO, Egemonie sociali cit.); per i casi specifici delle singole città nell'alto Medioevo fra le opere più recenti cfr. H. SCHWARZMAIER, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11. Jahrhunderts, Tübingen, Niemeyer, 1972; R. SCHUMANN, Autority and the Commune, Parma 833-1133, Parma, Deputazione di storia patria per le province parmensi, 1973; J. JARNUT, Bergamo 568-1098. Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nell'alto Medioevo, Bergamo, Archivio Bergamasco, 1981 (1a ed. Wiesbaden, 1979); P. RACINE, Plaisance du Xe à la fin du XIIIe siècle. Essai d'histoire urbaine, Lille-Paris, Université de Lille-Troyes, 1979; H. KELLER, Adelsherrschaft und städtische Gesellschaft in Oberitalien (9. 12. Jahrhundert), Tübingen, Niemeyer, 1979; R. BORDONE, Città e territorio nell'alto medioevo. La società astigiana dal dominio dei Franchi all'affermazione comunale, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1980.


2. Sulle origini comunali, oltre ai titoli citati al punto 1, cfr. G. CASSANDRO, Un bilancio storiografico, G. ROSSETTI, Storia familiare e struttura sociale e politica di Pisa nei secoli XI e XII, O. BANTI, «Civitas» e «Commune» nelle fonti italiane dei secoli XI e XII, ora tutti in G. ROSSETTI (a cura di), Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1977; S. BERTELLI, Il potere oligarchico nello stato-città medievale, Firenze, La Nuova Italia, 1978; D. WALEY, Le città-repubblica nell'Italia medievale, Milano, Il Saggiatore, 1969 (nuova ed. Torino, Einaudi, 1980); O. CAPITANI, Città e comuni e A. I. PINI, Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in Storia d'Italia, Torino, Utet, 1981 (con ampia bibl.); R. BORDONE, Tema cittadino e «ritorno alla terra» nella storiografia comunale recente, in «Quaderni storici», XVIII, 1983, 52. Per le singole città cfr. G. VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Pisa, 1902 (nuova ed. Firenze, Sansoni, 1970); I. PERI, Studi sul comune di Genova. Genesi e formazione del comune consolare a Genova. Ordinamento del comune consolare, in «Atti dell'Accademia delle scienze, lettere e arti di Palermo», serie IV, XI, 1951; E. BACH, La cité de Gênes au XII siècle, Kobenhaven, 1955; G. PISTARINO, Alessandria nel mondo dei comuni, in «Studi medievali», serie III, II, 1970; J. C. MAIRE VIGUEUR, Les institutions communales de Pisa aux XIIe et XIIIe siècles, in «Le Moyen Age», 79, 1973; D. OWEN HUGHES, Urban Growth and Family Structure in Medieval Genua, in «Past and Present», LXVI, 1975; H. KELLER, Die Entstehung der italienischen Stadtkommunen als Problem der Sozialgeschichte, in «Frühmittelalterliche Studien », 10, 1976; G. G. FISSORE, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel comune di Asti, Spoleto, Cisam, 1977; H. KELLER, Der Ubergang zur Kommune: zur Entwiklung der italienischen Stadtverfassung im 11. Jahrhundert, in Beiträge zum hochmittelalterlichen Stadtwesen, Köln-Wien, Böhlau, 1982. Sui consorzi familiari all'interno dei comuni cfr. F. NICCOLAI, I consorzi nobiliari e il comune nell'alta e media Italia, Bologna, Zanichelli, 1940; M. MORESCO, Parentele e guerre civili a Genova nel XII secolo, in Scritti giuridici in onore di Santo Romano, Padova, Cedam, 1940; J. HEERS, Il clan familiare nel Medioevo, Napoli, Liguori, 1974; G. DUBY – J. LE GOFF (a cura di), Famiglia e parentela nell'Italia medievale, Bologna, Il Mulino, 1977; G. ROSSETTI – M. C. PRATESI – M. B. GUZZARDI – G. LUGLIÈ – C. STURMANN, Pisa nei secoli XI e XII: formazioni e caratteri di una classe di governo, Pisa, Pacini, 1979.


3. Sulla composizione socio-politica di altre città comunali italiane non ancora ricordate ai punti precedenti: R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, Firenze, Sansoni, 1956-1968 (1a ed. Berlin, 1896-1927), 8 voll.; A. HESSEL, Storia di Bologna, Bologna, Alfa, 1975 (1a ed. Berlin, 1910); P. TORELLI, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, Mantova, Accademia Virgiliana, 1930-52; P. VACCARI, Profilo storico della città di Pavia, Pavia, La Ticinese, 1950; A. GUALAZZINI, Il popolus di Cremona e l'autonomia del comune. Ricerche di storia del diritto pubblico medievale italiano, Bologna, Zanichelli, 1940; L. SIMEONI, Studi su Verona nel Medioevo, a cura di V. Cavallari, Verona, Istituto per gli studi storici veronesi, 1959-63; V. COLORNI, Il territorio mantovano nel sacro romano impero, Milano, Giuffrè, 1959. Sulle trasformazioni istituzionali: V. FRANCHINI, Saggio di ricerche su l'istituto del podestà nei comuni medievali, Bologna, Zanichelli, 1912; V. VITALE, Il comune del podestà a Genova, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951; E. CRISTIANI, Le alternanze tra consoli e podestà ed i podestà cittadini, in C. D. FONSECA (a cura di), I problemi della civiltà comunale, Bergamo, Cariplo, 1971; O. BANTI, Forme di governo personale nei comuni dell'Italia centro-settentrionale (secc. XI-XII), in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1974. Sulle organizzazioni del lavoro nelle città comunali cfr. la nota bibliografica della Seconda sez., punto 4; sulla formazione e lo sviluppo del «popolo» e i suoi contrasti con i magnati: G. FASOLI, Le compagnie delle armi a Bologna, Bologna, Biblioteca dell'Archiginnasio, 1933; G. DE VERGOTTINI, Arti e popolo nella prima metà del secolo XIII, Milano, Giuffrè, 1943; G. FASOLI, La legislazione antimagnatizia nei comuni dell'alta e media Italia, in «Rivista di storia del diritto italiano», XIII, 1939; E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli, Esi, 1962; G. TABACCO, Interpretazioni e ricerche sull'aristocrazia comunale di Pisa, in «Studi medievali», serie III, III, 1962, 2; dello stesso autore, Nobiltà e potere ad Arezzo in età comunale, in «Studi medievali», serie III, XV, 1974; dello stesso autore, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze tra XII e XIII secolo, in «Studi medievali», serie III, XVII, 1976; S. RAVEGGI – M. TARASSI – D. MEDICI – P. PARENTI, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze nella seconda metà del Dugento, Firenze, La Nuova Italia, 1978; E. ARTIFONI, La società di «popolo» di Asti fra circolazione istituzionale e strategie familiari, in «Quaderni storici», XVII, 1982, 52; dello stesso autore, Una società di «popolo». Modelli istituzionali, parentele, aggregazioni societarie e territoriali ad Asti nel XIII secolo, in «Studi medievali», in corso di stampa. Una segnalazione particolare meritano poi due opere fondamentali, ancorché in disaccordo, relative ai contrasti civili e politici fiorentini: G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze, 1899 (nuova ed. Torino, Einaudi, 1960) e N. OTTOKAR, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze, Vallecchi, 1926 (nuova ed. Torino, Einaudi, 1974). Sulle violenze civili: L. MARTINES (a cura di), Violence and Civil Desorder in Italian Cities 1200-1500, Berkeley – Los Angeles – London, University of California Press, 1972 (di cui in particolare cfr. D. HERLIHY, Some Psycological Roots of Violence in the Tuscan); J. HEERS, Partiti e vita politica nell'Occidente medievale, Milano, Mondadori, 1983.


4. Sugli statuti e sull'impianto istituzionale dei comuni cfr. A. LATTES, Il diritto consuetudinario delle città lombarde, Milano, 1899 (nuova ed. Milano, Cisalpino, 1972); G. DE VERGOTTINI, L'impero e lo «ius statuendi» dei comuni (1949), ora in G. DE VERGOTTINI, Scritti di storia del diritto italiano, a cura di G. Rossi, Milano, Giuffrè, 1977; F. NICCOLAI, Note sulle consuetudini di Alessandria del 1179, Milano, Giuffrè, 1939; F. CALASSO, Medioevo del diritto, I: Le fonti, Milano, Giuffrè, 1954; M. SBRICCOLI, L'interpretazione dello statuto. Contributo allo studio delle funzioni dei giuristi nell'età comunale, Milano, Giuffrè, 1969; G. SERGI, Gli statuti casalesi come espressione di autonomia istituzionale in un comune non libero, in Gli statuti di Casale Monferrato del XIV secolo, Casale Monferrato, Lions Club, 1978; dello stesso autore, Interazioni politiche verso un equilibrio istituzionale nella Torino del Trecento, in Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento, Torino, Comune di Torino, 1981. Sui rapporti fra i comuni italiani e il Barbarossa cfr. FONSECA (a cura di), I problemi della civiltà comunale cit.; Popolo e stato in Italia nell'età di Federico Barbarossa. Alessandria e la lega lombarda, Torino, Deputazione di storia patria, 1970; A. HAVERKAMP, Herrschaftsformen der Frühstaufeen in Reichsitalien, I-II, Stuttgard, Hiersemann, 1970-1971; L. FASOLA, Una famiglia di sostenitori milanesi di Federico I. Per la storia dei rapporti dell'imperatore con le forze sociali e politiche della Lombardia, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LII, 1972; R. MANSELLI – J. RIEDMANN (a cura di), Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e in Germania, Bologna, Il Mulino, 1982. Sui rapporti di politica estera del comune e sull'assoggettamento del contado cfr. G. DE VERGOTTINI, Origini e sviluppo storico della comitatinanza, in «Studi senesi», 43, 1929 (ora anche in DE VERGOTTINI, Scritti di storia del diritto italiano cit.); E. CRISTIANI, Città e campagna nell'età comunale in alcune pubblicazioni dell'ultimo decennio, in «Rivista storica italiana», LXXV, 1963; G. LUZZATTO, Dai servi della gleba agli albori del capitalismo, Bari, Laterza, 1966; G. CHITTOLINI, Città e contado nella tarda età comunale (a proposito di studi recenti), in «Nuova rivista storica», LIII, 1969; D. ALBESANO, La costruzione politica del territorio comunale di Alba, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXIX, 1971; R. BORDONE, L'aristocrazia militare del territorio di Asti: i signori di Gorzano, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXIX-LXX, 1971-72; G. CHERUBINI, Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del basso medioevo, Firenze, La Nuova Italia, 1977; P. CAMMAROSANO, Le campagne senesi dalla fine del secolo XII agli inizi del Trecento; dinamica interna e forme di dominio cittadino, in Contadini e proprietari nella Toscana moderna, I: Dal Medioevo all'età moderna, Firenze, Olschki, 1979; R. BORDONE, Lo sviluppo delle relazioni personali nell'aristocrazia rurale del Regno italico, e G. FASOLI, Città e feudalità, entrambi in Structures féodales et féodalisme dans l'Occident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles), Roma, École Française de Rome, 1980; E. ARTIFONI, La «coniunctio et unitas» astigiano-albese del 1223-24. Un esperimento e la sua efficacia nella circolazione di modelli istituzionali, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXXVIII, 1980; B. GRAMAGLIA, Signori e comunità tra Asti, Chieri e Monferrato in età comunale, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXXIX, 1981; sulle villenove e l'ordinamento delle popolazioni rurali cfr. G. FASOLI, Ricerche sui borghi franchi nell'Alta Italia, in «Rivista di storia del diritto italiano», XV, 1942; G. VIGLIANO, Borghi nuovi medievali in Piemonte, in Popolo e stato in Italia cit.; C. HIGOUNET, Les «terre nuove» florentines du XIVe siècle, in Studi in onore di A. Fanfani, Milano, Giuffrè, 1962; dello stesso autore, Les villeneuves du Piémont et les bastides de Gascogne (XIIe-XIVe siècles), in Paysages et villages neufs du Moyen Age, Bordeaux, Fédération historique de Sud-Ouest, 1975; F. PANERO, Un momento della pianificazione territoriale del comune di Alba nel XIII secolo: la genesi e l'assetto distrettuale e urbanistico della villa nuova di Cherasco, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici e artistici della provincia di Cuneo», LXXIV, 1976; dello stesso autore, Due borghifranchi padani. Popolamento ed assetto urbanistico e territoriale di Trino e Tricerro nel secolo XIII, Vercelli, Società storica vercellese, 1979. Sulle funzioni podestarili e sui trattati «de regimine» cfr. A. SORBELLI, I teorici del reggimento comunale, in «Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medioevo», LIX, 1944; V. FRANCHINI, Trattati «de regimine civitatum», in La ville, I, Bruxelles, Soc. Jean Bodin, 1954; D. FRANCESCHI, L'«Oculus pastoralis» e la sua fortuna, in «Atti dell'Accademia delle scienze di Torino», XCIX, 1964-65; dello stesso autore, Oculus Pastoralis, in «Memorie dell'Accademia delle scienze di Torino», serie IV, XI, 1966; C. LUDWIG, Untersuchungen über die frühesten Podestaten italienischer Städte, Wien, Dissertations des Universität Wien, 1973; M. C. DE MATTEIS, La «teologia politica comunale» di Remigio de' Girolami, Bologna, Patron, 1977. Sulla politica finanziaria e fiscale del comune: B. BARBADORO, Le finanze della repubblica fiorentina. Imposte dirette e debito pubblico fino all'istituzione del Monte, Firenze, Olschki, 1929; M. C. DAVISO, I più antichi catasti del comune di Chieri (1253), in «Bollettino storico bibliografico subalpino», XXXIX, 1937; G. ORLANDELLI, La revisione del bilancio del comune di Bologna dal XII al XV secolo, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per la Romagna», nuova serie, II, 1951; dello stesso autore, Gli uffici economici e finanziari del comune di Bologna dal XII al XV secolo, Roma, Archivi di Stato, 1954; E. FIUMI, L'imposta diretta nei comuni medievali della Toscana, in Studi in onore di A. Sapori cit.; D. HERLIHY, Direct and Indirect Taxation in Tuscan Urban Finance (ca. 1200-1400), in Finances et comptabilité urbaines du XIIIe au XVIe siècle, Bruxelles, Pro Civitate, 1964; C. ROTELLI, L'economia agraria di Chieri attraverso i catasti dei secoli XIV-XV, Milano, Giuffrè, 1967; M. BUONGIORNO, Il bilancio di uno stato medievale. Genova (1340-1529), Genova, 1973 (Collana storica di fonti e studi); F. BOCCHI, Le imposte dirette a Bologna nei secoli XII e XIII, in «Nuova rivista storica», LVII, 1973; A. M. PASCALE, Fisionomia territoriale e popolazione nel comune di Torino dal catasto del 1349, in «Bollettino storico bibliografico subalpino», LXXII, 1974; E. SARACCO PREVIDI, Per una ricerca sulla situazione economica e sociale in un catasto dell'anno 1268, in «Studi maceratesi», X, 1976; W. M. BOWSKY, Le finanze del comune di Siena (1287-1355), Firenze, La Nuova Italia, 1976; A. I. PINI, Gli estimi cittadini di Bologna dal 1296 al 1329, in «Studi medievali», serie III, XVIII, 1977; D. HERLIHY – C. KLAPISCH ZUBER, Les Toscanes et leurs familles. Un étude du catasto florentin de 1427, Paris, École des hautes études, 1978; C. VIOLANTE, Alle origini del debito pubblico nel secolo XII: l'esempio di Pisa, in Studi per Enrico Fiumi, Pisa, Pacini, 1979; G. GARZELLA – M. L. CECCARELLI LEMUT – B. CASINI, Studi sugli strumenti di scambio a Pisa nel Medioevo, Pisa, Pacini, 1979; G. BRACCO, Le finanze del Comune di Torino nel sec. XIV, in Torino e i suoi statuti cit.; A. MARTINA, La società torinese nel basso medioevo fra evoluzioni politiche e trasformazioni sociali, in S. PETTENATI – R. BORDONE (a cura di), Torino nel basso medioevo: castello, uomini, oggetti, Torino, Musei civici, 1982. Sul trapasso dall'età comunale a quella signorile cfr. le raccolte di saggi: G. CHITTOLINI, La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV, Torino, Einaudi, 1979; G. CHITTOLINI (a cura di), La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello Stato del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1979.

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UpUltimo aggiornamento: 01/03/2005